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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2024

Saggi

Agire insieme per cambiare il welfare: quale ruolo per le pratiche collaborative?

Anastasia Rita Guarna, Franca Maino


Introduzione

Sono ormai quasi due decenni che assistiamo alla crescita di nuovi rischi sociali legati ad un’onda lunga di trasformazioni che ha comportato un aumento della domanda di protezione sociale. L’indicatore più evidente è la povertà: una condizione in cui è molto più facile scivolare rispetto al passato, che caratterizza persone con profili - e quindi risorse e bisogni - più eterogenei. E si presenta come fenomeno multidimensionale le cui manifestazioni principali sono la povertà minorile, educativa, abitativa, energetica, digitale, alimentare, sanitaria, da/di lavoro. Inoltre, mentre gli effetti della crisi pandemica non sono ancora stati completamente assorbiti, nuovi eventi accrescono l’incertezza sulla capacità di tenuta del welfare pubblico. Da un lato, la guerra in Ucraina ha accelerato dinamiche inflazionistiche, in particolare sui beni energetici e alimentari, incrementando sia il numero di poveri sia la fascia grigia dei vulnerabili. Dall’altro, nell’autunno 2023, lo scoppio del conflitto israelo-palestinese ha riportato all’attenzione il tema dei conflitti globali e delle guerre nel cuore dell’Europa. Contemporaneamente il dibattito sul cosiddetto welfare ecosociale (Mandelli 2022) porta alla luce la crescente centralità della transizione ecologica e dei cambiamenti climatici e come gli effetti sul welfare state mettano in discussione i principi su cui è stato costruito, aggravando il rischio povertà e accrescendo le disuguaglianze sociali.

Mentre le politiche sociali del XX secolo erano concepite per rispondere ai processi di industrializzazione, urbanizzazione e globalizzazione, quelle del XXI secolo si trovano a contrastare le conseguenze derivanti dall’emergenza climatica e dalle politiche ambientali. Il cambiamento climatico è quindi sempre più inquadrato come nuovo rischio sociale “onnicomprensivo” o di “terza generazione” (Johansson et al. 2016): meno legato alle crisi del mercato del lavoro e delle strutture familiari richiede una concettualizzazione che vada al di là del nesso tra lavoro e welfare. È un rischio dagli effetti molto più ambigui, sia diretti sia indiretti. Non delimitabile a livello nazionale, colpisce - anche se non in modo uguale - su scala globale, nazionale, regionale e locale. Si aggiunge ai rischi sociali esistenti per formare una complessa struttura multistrato di bisogni, generando nuovi tipi di conflitti distributivi e nuove forme di ingiustizia tra i Paesi in via di sviluppo e quelli sviluppati, tra gruppi sociali, tra le generazioni presenti e future.

In particolare, il rapporto bidirezionale tra politiche ambientali e sociali riguarda l’intreccio tra crisi climatica e disuguaglianze sociali. Studi e ricerche dimostrano come le responsabilità e gli impatti delle emissioni climalteranti siano distribuiti in modo diseguale tra i Paesi e al loro interno: il 10% più ricco del mondo è responsabile della metà delle emissioni del consumo globale, come ribadito nell’ultimo Climate Inequality Report (Chancel et al. 2023). I Paesi più vulnerabili sono più esposti ai rischi ambientali ma anche meno attrezzati finanziariamente e strutturalmente per affrontarne le conseguenze negative. Inoltre, le politiche climatiche possono alimentare le disuguaglianze esistenti a causa degli effetti collaterali potenzialmente regressivi delle strategie di decarbonizzazione (Gough 2019). Povertà e diseguaglianze a loro volta aggravano la crisi climatica in vari modi: aumentano la domanda di crescita economica, riducono la resilienza delle società, ostacolano la capacità di azione collettiva, incrementano l’irresponsabilità ecologica dei cittadini più ricchi e riducono la sensibilità dei meno abbienti verso il clima (Gough 2019). Nel complesso, la crisi climatica genera cambiamenti nel sistema di welfare perché colpisce in maniera diversa le persone in base alle loro caratteristiche socioeconomiche (età, reddito, settore occupazionale), perché ha conseguenze sulla produttività del lavoro e sull’accesso ai servizi pubblici, perché la sua gestione coinvolge anche le politiche sociali (da quelle sanitarie e abitative a quelle dei trasporti). L’interazione tra ambiente e welfare modifica i bisogni sociali e richiede di adattare le politiche esistenti e di introdurne di nuove.

Interazioni e processi che interpellano lo Stato (e, di riflesso, il Mercato, i corpi intermedi, e le famiglie), chiamato a decidere quali rischi devono essere tutelati in un contesto caratterizzato da scelte politiche spesso contraddittorie e non certo “remunerative” in termini di consenso. Da un lato, nel dibattito pubblico e politico emerge la richiesta - enfatizzata dall’emergenza sanitaria in fase pandemica (si veda tra gli altri Maino 2021) - di un maggiore intervento dello Stato a garanzia dei diritti sociali e nella regolazione delle dinamiche economiche che determinano rischi e bisogni (si pensi per esempio all’inflazione). Dall’altro, si assiste al ritiro dello Stato su alcuni dei fronti sociali più importanti, come il contrasto alla povertà (cfr. Sacchi et al. 2023). Parallelamente, come evidenziato da Maino (2023), in anni recenti si sono consolidate pratiche di coprogettazione e coprogrammazione che fanno perno sul coinvolgimento di soggetti terzi rispetto al perimetro pubblico, ancorati ai contesti territoriali in cui operano. Inoltre, è sempre più chiara l’importanza delle reti multiattore come fattore di reazione agli shock: tanto nella pandemia che di fronte a calamità naturali poter contare su partnership plurali disposte a condividere informazioni, provvedimenti, strutture e processi, nonché su di un capitale sociale alimentato da attori territoriali in grado di offrire volontari e beni strumentali, ha infatti fortemente influenzato la capacità di reazione delle comunità.

Oggi, quindi, il welfare pubblico, con i suoi programmi nazionali, sta attraversando una fase dal futuro incerto (Lodi Rizzini e Maino 2023). Pur avendo a disposizione risorse straordinarie (il PNRR) e molto più consistenti rispetto a quelle disponibili per fronteggiare la crisi del 2008, il welfare sembra perdere terreno sul fronte dell’universalismo e della redistribuzione. Molte sono le conseguenze sui livelli regionali e locali e numerose sono anche le pressioni che si scaricano sulle amministrazioni pubbliche e sulle comunità interrogando non solo l’attore pubblico ma la pluralità di attori profit e non profit. Questi soggetti hanno allenato la loro disponibilità e capacità a lavorare in rete adottando logiche collaborative e partecipative, dentro un quadro regolativo che negli anni si è fatto via via sempre più favorevole e di supporto rispetto alla messa in campo di pratiche di coprogettazione, coprogrammazione e coattuazione degli interventi e delle politiche. Queste pratiche collaborative sono al centro del Sesto Rapporto sul secondo welfare (Maino 2023) e rielaborate nel presente contributo, finalizzato ad accrescere la consapevolezza di come “agire insieme” possa contribuire a cambiare il welfare e a contrastare quella spirale involutiva richiamata sopra.

A partire dalla domanda di ricerca su perché e come la coprogettazione e la coprogrammazione stiano diventando sempre più la logica di intervento per dare risposte in tempi di policrisi e di trasformazione del welfare ecosociale, si presentano i dati emersi dal lavoro di analisi del Sesto Rapporto sul secondo welfare che hanno permesso di restituire una panoramica sui significati, la diffusione e le modalità di impiego delle pratiche collaborative come strumenti di implementazione di servizi e interventi di welfare da parte degli enti pubblici, del Terzo Settore e degli enti privati[1]. L’articolo è strutturato nel modo seguente. La sezione 1 presenta brevemente gli elementi distintivi delle pratiche collaborative, dalla Legge quadro del 2000 fino al più recente art. 55 del Codice del Terzo Settore e mette in luce il potenziale innovativo dei principali soggetti coinvolti. La sezione 2 affronta il tema delle pratiche collaborative agite e percepite facendo emergere i punti di forza e le criticità. La sezione 3 approfondisce i fattori facilitanti e ostacolanti e la 4 propone una serie di raccomandazioni per lo sviluppo delle pratiche collaborative. Una breve conclusione chiude l’articolo.

1. Le pratiche collaborative: elementi distintivi

In Italia l’ambito delle politiche sociali è sempre stato teatro di sperimentazioni di forme di ibridazione tra organizzazioni pubbliche e private (Paci 1989). L’evoluzione e la mutazione dei rapporti tra questi soggetti sono state influenzate da una costante tensione tra il paradigma della competizione e il paradigma della collaborazione il cui risultato è stato il susseguirsi, nel tempo, di diverse pratiche e strumenti di partecipazione e regolazione[2]. Se nella prima parte del nuovo millennio il ricorso alla coprogettazione è stato fortemente ancorato alla riduzione delle risorse, i più recenti cambiamenti sociali hanno posto sempre di più l’attenzione sulle pratiche collaborative come soluzione innovativa e maggiormente adeguata ai nuovi bisogni emergenti. Tale scenario è stato rafforzato - come illustrato nell’introduzione - dalle più recenti crisi che hanno e stanno giocando un ruolo fondamentale nel rendere consapevoli le amministrazioni che per rispondere alle sfide sociali è necessario coinvolgere e valorizzare il tessuto locale (Maino 2021). Un vero e proprio “risveglio” del territorio, in cui sia il pubblico sia gli enti privati sono chiamati ad interrogarsi sulle possibili soluzioni da introdurre per rispondere ai nuovi rischi sociali, oggi ulteriormente spronati a lavorare insieme in virtù delle risorse previste dal PNRR.

Per meglio comprendere come si inseriscono coprogettazione e coprogrammazione nelle pratiche collaborative è necessario esaminare gli elementi che le contraddistinguono, soffermandosi sull’inquadramento normativo che ne ha fortemente influenzato la diffusione e le modalità di impiego (§ 1.1) e illustrando la pluralità di attori coinvolti, nonché i loro ruoli e competenze all’interno del processo collaborativo (§ 1.2).

1.1. Inquadramento normativo

Benché negli ultimi anni vi sia stata una svolta nel riconoscere la coprogettazione e la coprogrammazione come strumenti significativi per perseguire il principio della collaborazione e produrre un cambiamento nell’implementazione delle politiche sociali, il quadro normativo di riferimento appare ancora limitato esclusivamente a enunciare una serie di principi e indirizzi, delegando al legislatore regionale l’emanazione di disposizioni attuative in materia. Si propone, qui di seguito, una breve ricostruzione del percorso normativo a livello nazionale e regionale.

A livello nazionale, la coprogettazione affonda le sue radici remote nella Legge 328/2000 che – benché non la nomini esplicitamente né tantomeno la definisca in termini di percorsi amministrativi – delinea una cornice di principi e di indirizzi che vanno a costituire un terreno fertile di sviluppo di questa pratica. Le disposizioni di riferimento per la coprogettazione sono quelle che privilegiano il metodo della concertazione e della cooperazione tra i livelli istituzionali e in particolare favoriscono gli enti del Terzo Settore nell’implementazione di servizi sociali. Sarà poi il DPCM del 30 marzo 2001, emanato proprio in attuazione dell’art. 5 della Legge 328/2000, a introdurre per la prima volta nel quadro normativo nazionale il termine “coprogettazione”. Nello specifico viene confermata la necessità di valorizzare il ruolo del Terzo Settore nelle attività di programmazione e progettazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali e viene introdotta una nuova modalità di regolazione della collaborazione: l’istruttoria pubblica per la coprogettazione di interventi innovativi e sperimentali.

A distanza di anni dalla Legge quadro - che ha contribuito a riconoscere nella coprogettazione uno strumento alternativo alle forme procedurali degli acquisti e affidamenti di servizi - è l’art. 55 del d.lgs. n. 117 del 3 Luglio 2017 (noto come Codice del Terzo Settore, CTS) a definire gli aspetti regolativi della collaborazione tra enti pubblici e privati prevedendo tre forme di coinvolgimento: a) la coprogrammazione introdotta come pratica finalizzata all’individuazione, da parte della PA, dei bisogni della comunità da soddisfare, degli interventi necessari da intraprendere e delle modalità per realizzarli, nonché delle risorse a disposizione per dare esecutività alle azioni previste; b) la coprogettazione come pratica finalizzata alla definizione ed eventualmente alla realizzazione di specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare i bisogni definiti alla luce degli esiti della coprogrammazione; c) l’accreditamento, quale sottocategoria con cui attivare il partenariato – oltre che l’istruttoria di coprogettazione – previa definizione, da parte della PA, degli obiettivi generali e specifici dell’intervento, della durata e delle caratteristiche essenziali dello stesso, nonché dei criteri e delle modalità per l’individuazione degli enti partner. In aggiunta, l’art. 55 amplia in modo significativo le modalità di utilizzo delle pratiche collaborative passando dalle politiche di welfare previste dalla Legge 328/2000 e dal DPCM 30 marzo 2001 a tutti i settori di interesse generale individuati dal CTS e da “circostanze specifiche di interventi sperimentali e innovativi” a tutti i casi che riportino una logica diversa da quella prestazionale.

Con la Sentenza n. 131/2020, la Corte Costituzionale non solo sottolinea come l’art. 55 del CTS rappresenti la prima applicazione sistematica del principio di sussidiarietà introdotto nell’art. 118 della Costituzione nel 2001, ma si pone in divergenza - pur senza citarlo - con il parere del Consiglio di Stato del 2018 fortemente influenzato dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) che fino ad allora aveva assunto posizioni critiche nei confronti della collaborazione (solo nel 2021 l’ANAC riconosce le pratiche collaborative e proclama la propria incompetenza nel trattare l’argomento).

Con la riforma del Codice dei Contratti Pubblici (CCP) viene introdotto il d.lgs. 36/2023 il quale si esprime sulle pratiche collaborative - riferendosi alla categoria più ampia dell’amministrazione condivisa - legittimando l’impiego del modello collaborativo in relazione ad attività “a spiccata valenza sociale e in assenza di rapporti sinallagmatici”. Rimane ad appannaggio di ciascuna amministrazione, di fronte a tali ambiti di lavoro, la discrezionalità di impostare l’esercizio della funzione amministrativa in forme di esternalizzazione oppure adottando i nuovi modelli collaborativi proposti dal Codice del Terzo settore.

Venendo al livello regionale, le disposizioni governative appena discusse e poi il Decreto Ministeriale 72/2021 (le "Linee Guida sul rapporto tra pubbliche amministrazioni e Terzo settore") lasciano alle amministrazioni procedenti ampi spazi di autonomia - che possono talvolta generare talune incertezze - rispetto alle modalità procedurali di coprogettazione e coprogrammazione. Una possibile fonte di regolamentazione locale più dettagliata in materia può essere costituita dalle normative regionali.

Già in anni passati, nella fase precedente al Codice del Terzo settore, le Regioni, erano intervenute a normare la coprogettazione attraverso atti di diversa natura: leggi regionali di attuazione della Legge 328/2000 o di atti di indirizzo diretti alla regolazione dei rapporti tra enti locali ed enti del Terzo Settore o nell’ambito dei piani sociosanitari regionali. Pur nella frammentarietà delle soluzioni e dei modelli adottati, le discipline regionali avevano in quella fase fornito un primo utile contributo alla definizione di queste nuove pratiche, in particolare in riferimento alla coprogettazione che, rispetto alla coprogrammazione, si è sviluppata prima in termini temporali. L'approvazione del Codice del Terzo settore nel 2017 ha poi dato vita ad una seconda generazione[3] di normative regionali (la prima fu la LR 65/2020 della Regione Toscana) che hanno proposto una visione degli strumenti di amministrazione condivisa coerenti con l'art. 55 (Ciceri e Raimondi 2018; De Ambrogio 2018; Fici et al. 2020; Gori 2023); tali normative possono senz'altro favorire la realizzazione di esperienze di promozione della coprogettazione a livello regionale e locale. Si tratta di pratiche promosse in primo luogo dagli Enti locali, ma anche da aziende sanitarie, scuole, Regioni che spaziano da pratiche strettamente inquadrate dal punto di vista amministrativo a progettazioni multiattore che non si possono propriamente definire coprogettazioni dal punto di vista amministrativo, ma che ne richiamano lo spirito (Guidetti 2023). A questo proposito, va notato come, oltre che la relazione tra Enti pubblici e Terzo settore, questi strumenti stiano stimolando una riflessione e alcune sperimentazioni anche da parte delle Fondazioni di origine bancaria.

Come ha evidenziato Gori (2023, p. 28), il fatto che il legislatore regionale stia continuando ad approvare provvedimenti legislativi in tema di Terzo settore costituisce un importante elemento di consolidamento della legittimazione degli ETS “come pilastro di una azione pubblica allargata, che non vede più l’attore pubblico come unico erogatore di beni e servizi a tutela dei diritti civili e sociali”. In altri termini, la legislazione regionale approvata tra il 2020 e il 2023 mette in evidenza come l’attribuzione di potestà legislativa e di funzioni amministrative agli enti territoriali non possa prescindere dal riconoscimento della capacità di coprogrammare e coprogettare insieme le politiche pubbliche locali.

1.2. Attori, ruoli e competenze

Coprogettazione e coprogrammazione si sono sviluppate in questi anni in un contesto in cui sono presenti attori di natura diversa. Qui di seguito una breve panoramica dei principali soggetti coinvolti, soffermandosi - per ognuno - sui ruoli, le competenze e gli aspetti che li contraddistinguono all’interno delle pratiche collaborative, riferendosi non solo alla coprogrammazione e coprogettazione propriamente intese, ma al complesso delle azioni collaborative in settori di interesse generale.

L’attore pubblico. Negli ultimi anni l’ente pubblico è stato chiamato a ricoprire il ruolo di promotore di reti (Fosti 2013; Maino 2021) e ad agire in funzione della programmazione e verifica di quanto realizzato dai soggetti attivi sul territorio, con le pratiche collaborative si realizza una sorta di accelerazione rispetto al processo di allargamento della funzione pubblica, invitando a una maggiore condivisione e corresponsabilità a tutti i livelli di progettazione, realizzazione e valutazione degli interventi. L’ente pubblico passerebbe così da gestore - in forma diretta o indiretta - di interventi e servizi di interesse generale all'essere protagonista delle pratiche collaborative dal momento che l’attivazione, nonché le modalità, i tempi e l’oggetto di lavoro risultano in capo alla scelta dell’ente pubblico (De Ambrogio e Guidetti 2018). Questo richiede agli enti pubblici di abbandonare le tradizionali modalità di esercizio del potere pubblico, connotate da logiche gerarchizzanti e prescrittive, per assumere un posizionamento paritario e flessibile che, pur garantendo le necessarie prerogative politico-istituzionali, sia in grado di favorire un sistematico coinvolgimento degli attori extra-istituzionali, non solo nell’attività erogativa bensì dall’attività istruttoria a quella decisionale. Perché questo possa realizzarsi è necessario, da parte dell’ente pubblico, curare la negoziazione delle forme e delle modalità di inclusione dei soggetti della rete; instaurare e disciplinare la relazione tra gli enti che intendono condividere le responsabilità della funzione sociale; realizzare forme di collaborazione mediante la messa in comune di risorse. In ultimo l’attore pubblico è chiamato a portare all’interno del processo collaborativo la sua capacità di strutturare una visione di lungo periodo a garanzia della sostenibilità e replicabilità.

Il Terzo Settore. Il coinvolgimento del Terzo Settore all’interno del sistema di welfare è oggetto da tempo di un ampio dibattito che, secondo Fazzi (2013), si polarizza su due prospettive opposte. La prima identifica il Terzo Settore come “motore autonomo del cambiamento”, che compensa con le proprie qualità la fatica dell’ente pubblico di promuovere l’innovazione in una cornice di inclusione e giustizia sociale. Questa posizione richiama le caratteristiche dell’efficienza, dell’orientamento all’innovazione, della cittadinanza attiva e della capacità di produrre democrazia. La seconda prospettiva vede il Terzo Settore in una posizione di second mover che considera il suo contributo alla modernizzazione del welfare come eterodiretto nonché marginale o scarsamente rilevante. Nonostante la crescita del Terzo Settore degli ultimi vent’anni, quest’ultima posizione si sviluppa in seno alla difficoltà di superamento del ruolo di mero esecutore (al fine di agire una partecipazione più attiva nel design dei servizi), mescolata a un forte particolarismo che non lo renderebbe un attore sufficientemente forte o abile per partecipare in modo decisivo all’innovazione sociale. Le attuali sperimentazioni di coprogettazione e di coprogrammazione si muovono nell’ambito della prima prospettiva qui menzionata e costituiscono una sfida non banale per un Terzo settore in cui sono probabilmente compresenti e frammiste entrambe le visioni sopra enunciate. Coprogrammazione e coprogettazione costituiscono per il Terzo Settore l’occasione di capitalizzare e mettere a disposizione tutto il sapere e la conoscenza rispetto a un determinato problema sociale, la possibilità di favorire la relazione con i destinatari degli interventi connessa alla prossimità con le comunità locali e di condividere reciprocamente capacità organizzative, gestionali e operative.

Gli enti privati. Le trasformazioni più recenti hanno spinto enti “più tradizionali” (aziende, organizzazioni sindacali, datoriali e ordini professionali, la cui funzione principale è la rappresentanza degli interessi degli associati – rispettivamente lavoratori, imprese e liberi professionisti) e nuovi attori (fondi e casse sanitarie, investitori che si occupano di finanza “a impatto sociale”, fondazioni di impresa) a interagire e/o unirsi a reti e partnership che hanno tematizzato il welfare come possibile leva di sviluppo economico e sociale per i territori. È in questa cornice che, ad esempio, sono state attivate dinamiche virtuose, capaci di fare del welfare aziendale una forma di investimento a vantaggio della collettività territoriale ampiamente intesa (Maino e Razetti 2019). Le sperimentazioni dell’ultimo decennio hanno evidenziato la capacità dei soggetti privati di combinare in modo innovativo i diversi mezzi disponibili, aprendosi sempre più a pratiche collaborative. Benché gli strumenti collaborativi dell'art. 55 siano indirizzati agli Enti di Terzo settore, questo non esclude che, come attori complementari in processi di coprogrammazione o coprogettazione o con ruoli anche diretti in altre forme collaborative, gli attori profit possano assumere un ruolo partecipando al processo di sviluppo, progettazione e implementazione di soluzioni e servizi. In particolare ciò riguarda le seguenti aree: a) condivisione di expertise e risorse tecniche e finanziarie utili non solo ad affrontare sfide sociali complesse ma anche a migliorare le strategie di sviluppo e l’impiego di tecnologie avanzate; b) accesso a nuovi mercati e opportunità di business con una crescente attenzione alla sostenibilità sociale e all’inclusione; c) generazione di valore condiviso, favorendo la creazione di soluzioni che soddisfano tanto le esigenze del Mercato quanto quelle sociali; d) ampliamento degli investimenti nel campo sociale e contributo all’innovazione di prossimità (Santoni e Maino 2021).

La società civile. Talune forme collaborative - l'esempio più diffuso è quello dei patti di collaborazione conseguenti a regolamenti per l'amministrazione condivisa dei beni comuni, promossi nel nostro paese in particolare grazie all'azione di Labsus - prevedono il coinvolgimento della società civile in forma più o meno aggregata e più o meno formalizzata. I cittadini sono chiamati ad assumere un ruolo responsabilizzato, partecipando attivamente alla coproduzione degli interventi. Se ci si riferisce invece alle esperienze di coprogettazione e coprogrammazione propriamente dette, emergono non poche difficoltà: sebbene esistano molte forme aggregate (comitati, consulte di quartiere, ecc.) dotate di una qualche struttura e di un qualche grado di formalizzazione che potrebbero aspirare a partecipare attivamente, la questione della rappresentanza, del carico gestionale e organizzativo necessario a partecipare a forme prolungate di confronto e scambio costituiscono una questione rilevante per questi attori. Molto spesso, pertanto, sono gli enti più strutturati a raccogliere prima delle sedute di coprogettazione e coprogrammazione la voce dei cittadini (Fazzi 2022), attraverso l’impiego di tecniche partecipative, al fine di raccogliere le varie posizioni di chi in prima persona vive una determinata condizione sociale rispetto alla quale si intende definire e realizzare specifiche risposte.

2. Pratiche collaborative percepite e agite

Veniamo ora a come le diverse pratiche collaborative - non solo quelle basate sull'art. 55 del Codice del Terzo settore - sono sia percepite e sia agite approfondendo tre aspetti: la definizione che gli attori del settore pubblico e del privato profit e non profit attribuiscono al concetto di pratiche collaborative, la loro diffusione territoriale e il rapporto tra le diverse fasi di tali pratiche, dalla programmazione degli interventi, alla loro progettazione fino alla realizzazione (§ 2.1); i fattori e le ragioni che hanno spinto e spingono gli attori locali a ricorrere alle pratiche collaborative come dispositivo di implementazione di servizi e interventi di welfare (§ 2.2); punti di forza e di debolezza delle pratiche collaborative (§ 2.3).

2.1. Significati, diffusione e rapporto con le altre pratiche collaborative

Oggi molto spesso il termine "coprogettazione", quello più utilizzato per riferirsi alle pratiche collaborative, viene utilizzato dagli operatori in senso a-tecnico e che non sempre coincide con quella fornito dalla normativa. Nella rappresentazione data dal campione oggetto del Sesto Rapporto non emerge una definizione univoca e condivisa di “coprogettazione”. Prevale una visione ancorata a concetti chiave e dimensioni sintetizzabili come momento di incontro tra attori pubblici e privati volto, da un lato, alla valorizzazione delle risorse locali e, dall’altro lato, all’implementazione di progettualità innovative in risposta ai bisogni emergenti. Rispetto alla valorizzazione delle risorse locali le due parole chiave che caratterizzano l’intero processo di “coprogettazione” sono “collaborazione” e “territorio”: si collabora sul territorio, quindi, con interventi specifici legati ai bisogni e al contesto, e con il territorio, con tutti quegli enti che lo abitano e lo animano. In relazione all’implementazione di progettualità innovative risulta consolidata la visione che le pratiche collaborative sono uno strumento per realizzare soluzioni alternative ai servizi tradizionali in risposta ai bisogni emergenti. Allo stesso tempo il campione intervistato riconosce - in linea con gli artt. 55-57 del Codice del Terzo Settore - la possibilità di estendere tali pratiche a tutti i settori di interesse generale esprimendo un crescente interesse verso l’esplorazione delle effettive potenzialità di tale pratica rispetto al rinnovamento di servizi ordinari[4].

Indagando lo sviluppo e la diffusione delle pratiche collaborative a livello nazionale, i dati restituiscono una forte disomogeneità territoriale: vi sono aree in cui tali pratiche appaiono ormai consolidate e altre in cui rappresentano un dispositivo non ancora messo a regime. Tale frammentarietà varia in base alla Regione e alla dimensione del Comune di riferimento. Rispetto alle Regioni, come già accennato, i legislatori regionali conservano un certo grado di discrezionalità normativa che lascia un ampio margine circa la possibilità di sperimentare o meno soluzioni collaborative. Inoltre, si evidenzia una sostanziale contrapposizione tra le Regioni del Nord e del Centro, più orientate a studiare e sperimentare la coprogettazione, e quelle del Sud Italia, dove invece è ancora difficile che tale pratica venga utilizzata, sia perché non molto esplorata, sia perché percepita dai decisori politici come poco trasparente e scarsamente competitiva. Sembra trovare conferma una sostanziale differenza tra Comuni di medie e grandi dimensioni, in cui risulta più facile coprogettare, ed enti locali più piccoli, che dichiarano maggiori difficoltà nell’utilizzare le pratiche collaborative a causa principalmente della scarsità di risorse economiche e sociali del territorio (cfr. Maino et al. 2024). Tuttavia, al di là delle differenze regionali e locali, dallo studio emerge una certa uniformità rispetto al percorso che la coprogettazione e le altre pratiche collaborative hanno seguito negli ultimi dieci anni: ossia un graduale passaggio dal sistema consolidato di esternalizzazione a forme di collaborazione multiattore per cui si fa sempre più ricorso ad un modello collaborativo come metodo organizzativo.

Rispetto al rapporto tra le diverse pratiche collaborative, l’analisi mette in luce una comune confusione e sovrapposizione, sia terminologica che sostanziale, tra pratiche contigue come la coprogettazione, la coprogrammazione e la “coproduzione”, intesa come eventuale fase realizzativa di un procedimento di coprogettazione. In riferimento al loro rapporto emergono due posizioni contrapposte. Da un lato, una parte degli intervistati ha riportato - a partire da esperienze concrete e/o dalla conoscenza del tema - una distinzione molto sfumata, a tratti approssimativa, tra coprogrammazione, coprogettazione e coattuazione degli interventi coprogettati, presentando la tendenza a inglobare le diverse pratiche dentro un unico e indistinto processo, a cui si chiede spesso di soddisfare diverse esigenze (co)programmatorie, come ha richiamato anche Marocchi (2024). Ciò implica un duplice rischio. In primo luogo, vi è la possibilità di assistere a una sovrapposizione degli strumenti e della modalità di lavoro comportando una duplicazione delle azioni, nonché la possibilità di sottrarre risorse utili (economiche e di tempo) all’obiettivo progettuale. In secondo luogo, la poca chiarezza rischia di generare un quadro eccessivamente indefinito, nel quale la scelta di collaborare viene spesso assunta come nuovo modello di lavoro tra pubblico e privato senza riflettere troppo sul perimetro all’interno del quale si agisce. L’avvio di percorsi collaborativi senza conoscere e distinguere gli elementi caratterizzanti le tre pratiche rischia sia di generare confusione in chi vi prende parte, favorendo un eventuale slittamento verso una tradizionale relazione di committenza, sia di rendere inefficace l’utilizzo del modello rispetto al tipo di intervento che si intendere realizzare e, pertanto, di sminuire lo strumento in sé, non producendo un cambiamento sostanziale nelle modalità di agire.

Dall’altro vi è una parte degli intervistati che distingue chiaramente tra coprogrammazione, coprogettazione e coattuazione degli interventi e dei servizi enucleando coerentemente gli elementi che le contraddistinguono ed enfatizzando le loro connessioni. La relazione di concatenazione tra le tre fasi non solo sembra produrre risultati più efficaci nella realizzazione di servizi e interventi di welfare, ma risulta maggiormente funzionale e strumentale sia rispetto all’orientamento e investimento delle risorse, sia rispetto al fornire una direzione alle azioni progettuali al fine di implementare una solida proposta a partire dai bisogni del territorio, fino a garantire una partecipazione attiva della cittadinanza. Rispetto alla coproduzione, inoltre, le persone intervistate identificano tale pratica come una “nuova cultura o stile di lavoro” che valorizza il rapporto diretto tra chi produce il servizio, il professionista, e chi ne usufruisce, cioè l’utente. I cittadini riescono insomma ad attribuire un valore aggiunto alle attività coprodotte perché portatori di vissuti personali e conoscenze di prima mano che non sempre possono essere compresi da chi fornisce il servizio.

2.2. Perché si ricorre a pratiche collaborative

Dall’analisi del materiale raccolto si individuano quattro motivi principali per cui i territori ricorrono maggiormente alle pratiche collaborative.

Il primo consta nella percezione del modello collaborativo come soluzione migliore per rispondere ai nuovi rischi sociali. I cambiamenti degli assetti di welfare e i conseguenti nuovi bisogni vedono in particolare nella coprogettazione una modalità di risposta più adeguata alle nuove esigenze e in grado di ottenere un cambiamento specifico che difficilmente si potrebbe ottenere singolarmente. Sempre di più si sta radicando la consapevolezza che “da soli non si va da nessuna parte” (Marocchi 2023, p. 89), bensì è necessario unire tutte le risorse e creare una relazione di scambio reciproco in cui la “la somma è maggiore delle parti” (McQuaid 2000, p. 19).

Il secondo motivo riguarda la sempre più spiccata necessità di un “cambiamento culturale” nelle modalità di programmare e progettare i servizi. Viene avvertita una doppia esigenza: da un lato quella di assimilare il metodo collaborativo all’interno di strumenti di programmazione più tradizionali, quali i Piani di Zona, per connettere l’analisi dei bisogni (grazie alla coprogrammazione) all’implementazione di servizi specifici (attraverso la coprogettazione). Dall’altro lato il ricorso a tali pratiche è favorito da un maggiore necessità di costruire sistemi integrati d’intervento, in grado sia di creare connessioni tra i servizi e gli enti territoriali - evitando la duplicazione e la frammentazione dell’offerta - ma soprattutto di abbandonare una logica meramente prestazionale e settoriale e adottare uno sguardo multidisciplinare sui bisogni sociali (Longo e Maino 2021).

Il terzo motivo concerne l’identificazione delle pratiche collaborative come uno strumento di partecipazione, democrazia e trasparenza in grado di favorire processi collettivi volti a consolidare forme di welfare di comunità. Il superamento del rapporto fra destinatari delle politiche sociali, decisori politici e fornitori di servizi non solo riconosce la comunità come un unico organo in cui i soggetti che la compongono sono chiamati ad assumere un ruolo attivo diventando così co-produttori/co-erogatori di servizi e interventi di welfare, ma stimola le comunità locali stesse a percepirsi come una collettività in cui i soggetti che le compongono sono chiamati non solo a “fare rete” ma anche a “essere rete” (De Ambrogio 2018).

Il quarto motivo che stimola il ricorso alla coprogettazione è il carattere innovativo intrinseco al modello collaborativo. L’innovatività risiede sia nel prodotto finale, attraverso l’implementazione di interventi e servizi maggiormente rispondenti ai bisogni riscontrati, sia nei processi di lavoro, che prevedono la costituzione di partnership multiattore in un continuo rapporto dialogico e di scambio. Tali aspetti innovativi vengono percepiti non solo come funzionali alla progettualità in essere, bensì come l’occasione sia di interiorizzare e migliorare le capacità organizzative locali tout court, sia di rafforzare le reti territoriali che rappresentano “un’eredità” spendibile - in termini di replicabilità e sostenibilità - in eventuali sperimentazioni future.

2.3. Punti di forza e di debolezza delle pratiche collaborative

La complessità dei fenomeni e la multidimensionalità delle pratiche collaborative determina la compresenza di punti di forza e punti di debolezza[5], come emerge di seguito ed è sintetizzato nella Figura 1.

 

Fig. 1. Pratiche collaborative: punti di forza e di debolezza

Fonte: rielaborazione da Bonomi e Guarna (2023).

 

Partiamo dai punti di forza. Un primo aspetto positivo che emerge è la corresponsabilità tra i soggetti partner, intesa come una partecipazione maggiormente inclusiva nei processi decisionali estesa a tutti i livelli di progettazione, realizzazione e gestione degli interventi. Dal punto di vista degli enti pubblici la corresponsabilità non solo comporta una rivisitazione del proprio ruolo, ma rappresenta una sorta di sollievo rispetto alla condivisione del carico gestionale. Allo stesso modo dal punto di vista del Terzo Settore emerge con forza la volontà di partecipare al processo deliberativo e mettere a disposizione le competenze acquisite da una radicata esperienza e conoscenza del contesto di riferimento.

Le pratiche collaborative richiedono poi nuove strategie di lavoro - in antitesi con il modello competitivo – imperniate sulla relazione e sul rapporto dialogico tra i partecipanti, attraverso la creazione di spazi e luoghi favorevoli alla negoziazione, allo scambio e al confronto paritario. Dotarsi dei suddetti strumenti organizzativi è ritenuto utile al fine di promuovere una modalità di lavoro condivisa che poggia su una definizione chiara dei ruoli e delle funzioni tra gli enti coinvolti ma, allo stesso tempo, si basa sulla commistione di competenze e sinergie professionali, individuate come elemento innovativo rispetto all’implementazione di interventi e servizi sociali.

Un ulteriore elemento distintivo su cui si basano le nuove strategie di lavoro è la valorizzazione delle competenze non più secondo una logica a canne d’organo[6] (tipica del modello competitivo), bensì secondo una logica di integrazione che richiede di abbandonare una modalità meramente prestazionale e settoriale per lasciare spazio alla costruzione di percorsi multidisciplinari. La valorizzazione delle competenze, inoltre, viene percepita dal campione intervistato come un aspetto dirimente nel suscitare un maggiore coinvolgimento dei diversi soggetti partner. Nei casi più virtuosi un ingaggio molto elevato può favorire una compartecipazione maggiore di risorse in termini di tempo, energie, e in alcuni casi anche economiche.

La condivisione delle risorse economiche, per l’appunto, rappresenta un aspetto virtuoso delle pratiche collaborative, e in particolare della coprogettazione perché spinge gli attori verso l’adozione di uno sguardo sempre più variegato e differenziato che porta in maniera naturale a maturare una crescente capacità di strutturare proposte secondo la logica del funding mix (Guarna 2022; Marocchi 2023). Allo stesso tempo la costruzione di processi inclusivi e plurali contraddistinti da multicompetenze favorisce un migliore investimento delle risorse (ottimizzazione) grazie a una maggiore consapevolezza delle attività utili da implementare rispetto a uno specifico target di destinatari e uno specifico territorio di riferimento.

Con riferimento ai punti di debolezza, emerge in primo luogo il forte impegno relazionale che tale pratica collaborativa richiede, in particolare in relazione a due ambiti. Da un lato, si tratta in particolare di uno sforzo relazionale non indifferente che prevede la creazione di alleanze tra enti diversi non solo per natura giuridica ma anche rispetto alla mission e alla cultura organizzativa (Balling 2005). Dall’altro, l’impegno relazionale concerne l’opera laboriosa di coordinamento di tali alleanze e richiede la costruzione di spazi congrui alla conoscenza reciproca degli enti al fine di valorizzare al meglio le risorse; un dialogo in modo da individuare e definire chiaramente i propri confini e il proprio ruolo nel processo di coprogettazione; di presidiare le relazioni per tutta la durata della coprogettazione per evitare che alcuni automatismi tipici del modello competitivo possano ripresentarsi e inficiare la collaborazione.

In secondo luogo, nel rapporto tra istituzioni pubbliche ed enti del Terzo Settore si possono presentare situazioni eterogenee vista la pluralità di enti che compongono il settore non profit, configurando uno scenario ancora molto variegato e spesso frammentato a livello territoriale. Vi è infatti una parte del Terzo Settore che si mostra più cauta rispetto alla realizzazione di servizi e interventi innovativi, maggiormente impegnata a trovare un equilibrio - per la sua stessa sopravvivenza - tra modalità e visioni del lavoro di rete orientate ad approcci collaborativi e logiche di tipo prestazionale volte a garantire stabilità e proseguimento dell’organizzazione.

In terzo luogo, un elemento che risulta ostico per il Terzo Settore all’interno in particolare del processo di coprogettazione, che è tra le pratiche collaborative quella che richiede un grado di formalizzazione più alto, è connesso alla rendicontazione. Il campione intervistato sottolinea la natura spesso farraginosa di tale procedura alla quale si va a sommare la complessità di dover familiarizzare con iter diversi di rendicontazione per ogni esperienza di collaborazione, dove spesso è necessario districarsi tra le richieste rendicontative connesse alla natura della coprogettazione e quelle derivanti dalla natura del finanziamento a sostegno della progettualità (PNRR, fondi europei, ministeriali, regionali, ecc.).

Infine, la disponibilità limitata delle risorse economiche, in un contesto di ridimensionamento della spesa sociale, non consente di conferire stabilità ai servizi. Allo stesso tempo, la previsione di tempi limitati per i tavoli di lavoro non permette di dedicare un tempo sufficientemente adeguato alle diverse fasi del percorso di coprogettazione (in particolare alla costruzione del partenariato e la conseguente elaborazione della proposta progettuale, riducendo le occasioni dedicate alla presentazione dei soggetti coinvolti e alla conoscenza delle reciproche caratteristiche e peculiarità). L’orizzonte temporale limitato, di conseguenza, si riflette sulla continuità delle coprogettazioni e sulla possibilità di adottare una prospettiva progettuale medio lunga utile a una efficace e adeguata realizzazione del percorso di coprogettazione.

3. Fattori ostacolanti e facilitanti delle pratiche collaborative

Veniamo ai fattori che ostacolano o facilitano la capacità delle pratiche collaborative di rispondere (più) efficacemente ai nuovi rischi e bisogni sociali[7].

La configurazione delle reti influisce sull’avvio, la gestione in itinere e l’esito dei processi di coprogettazione e la composizione delle reti che prendono parte alle pratiche collaborative gioca un ruolo sempre più rilevante rispetto ai cambiamenti del welfare locale. I processi collaborativi sono condizionati dal contesto in cui si sviluppano e dalle dinamiche interne alle singole organizzazioni, sia pubbliche che private. Inoltre, la partecipazione dei decisori locali può fare la differenza per favorire la sinergia tra istituzioni pubbliche ed enti del Terzo Settore e la costituzione, nell'interesse generale, di reti plurali e aperte anche agli attori privati. L’analisi - in linea con i risultati di altre ricerche (ad esempio Fazzi 2022) - ha inoltre messo in evidenza come la coprogettazione sia più efficace se alla base del consenso ci sono risorse conoscitive, competenze e fiducia, sottolineando l'importanza di una reale condivisione tra i partecipanti della visione e degli obiettivi.

Le reti multiattore che realizzano pratiche collaborative non sono però al riparo dall’azione di fattori ostacolanti. Da un lato le reti sono fondamentali per creare un contesto collaborativo in cui l'ente pubblico, il Terzo Settore e altri attori possano condividere risorse, competenze ed esperienze per affrontare problemi complessi e sviluppare servizi e progetti con un approccio inclusivo e attento alla sostenibilità. L'adesione a una rete multiattore offre un ambiente non competitivo dove le varie parti interessate possono collaborare per sviluppare soluzioni innovative. Il ruolo di facilitatore svolto dall'ente pubblico o da altri soggetti concorre a creare un ambiente in cui la diversità delle competenze e dei punti di vista può essere messa a frutto. Dall’altro lato, il reale svolgimento di tali processi è condizionato dal target a cui si rivolge (minori, anziani, adulti fragili, se si fa riferimento al welfare, o altri soggetti) e dal tipo di intervento (che, ad esempio, può essere mirato alla creazione di nuovi servizi o riguardare i processi).

A frenare i processi collaborativi ci sono poi fattori culturali (la resistenza al cambiamento e la dipendenza da logiche, prassi e pratiche tradizionali e/o competitive); oneri regolativi, amministrativi, organizzativi ed economico-finanziari; fattori di natura politico-strategica legati ad una visione miope, alla scarsa comprensione del potenziale delle pratiche collaborative, alla debolezza del ruolo del decisore pubblico e all’incapacità di proporre indirizzi strategici in grado di anticipare le sfide e i problemi. Contribuire ad una coprogettazione o ad altre pratiche collaborative implica, infatti, la partecipazione ai processi decisionali, contribuendo così a produrre nuove regole e nuove decisioni che dovranno essere implementate. Questo aumenta i margini di influenza sulle politiche di welfare locale da parte degli attori coinvolti. Tuttavia, il processo di collaborazione dipende anche dall'equilibrio tra interessi socioeconomici degli attori che partecipano al processo, ruolo della politica e coinvolgimento degli eventuali professionisti (consulenti, facilitatori, esperti). E tutti gli attori coinvolti nei processi collaborativi vivono le tipiche pressioni contrapposte tra seguire le regole o adattarle o integrarle in modo da poter meglio soddisfare le esigenze della comunità.

Venendo ai fattori che facilitano i percorsi collaborativi, essi sono riconducibili a tre piani analitici differenti: il contesto; la dimensione organizzativa e operativa; il processo. Il primo rimanda all’importanza di un ambiente aperto all’innovazione, supportato da un quadro normativo-regolativo chiaro e definito e, ove possibile, da una pregressa conoscenza reciproca tra gli attori locali. I fattori di natura organizzativa e operativa si riferiscono al coinvolgimento di figure terze con specifiche capacità di intermediazione e di connessione capaci di facilitare e accompagnare i processi; allo sviluppo di capacità professionali interne, specifiche e inerenti la coprogettazione, la rendicontazione e la valutazione (possibilmente anche quella di impatto); la formazione (o co-formazione) continua e l’apprendimento reciproco. Infine, i fattori di processo riguardano il coinvolgimento dell’ente pubblico che, in collaborazione con il privato non profit e quando è possibile anche con quello profit ai fini di ancoraggio e sostenibilità delle azioni future, coltiva una visione rivolta al futuro per agire (insieme) secondo logiche di sistema.

Infine, va sottolineato che le reti hanno natura e forma molto diverse tra loro, anche in relazione alle tradizioni e ai processi locali di governance (Kazepov et al. 2022) e oggi sempre più anche alla luce della presenza di agenti di intermediazione e accompagnamento in grado di facilitare e orientare l’azione degli attori locali (Busacca 2023). Le reti agiscono, infatti, anche grazie alla presenza di agenti/agenzie incaricate di rafforzare la collaborazione tra diversi settori e di integrare risorse e competenze. Si tratta di soggetti che hanno una natura prevalentemente abilitante e che attraverso la loro azione possono ridurre i livelli di frammentazione e accrescere l’approccio universalistico e improntato alla sostenibilità dell’azione sociale locale. Il lavoro di queste agenzie richiede risorse e competenze ad hoc e la capacità dei sistemi locali di dotarsene prescindendo da quei particolarismi e dalla frammentazione che caratterizzano il sistema di welfare italiano.

4. Raccomandazioni e prospettive

La complessità delle pratiche collaborative richiede a tutte le parti coinvolte di continuare a riflettere anche alla luce del fatto che siamo pienamente immersi in una fase che fa ancora ampio ricorso a sperimentazioni e appare distante da un compiuto consolidamento. E che, inoltre, evidenzia incertezze tra l’applicazione degli strumenti previsti dalla normativa e il ricorso a pratiche collaborative meno formalizzate e più incentrate sul lavoro di rete per dare risposte in tempi incerti di policrisi e di trasformazione del welfare eco-sociale. L’analisi empirica condotta ha permesso di alcune raccomandazioni illustrate di seguito e sintetizzate nella Figura 2. Appaiono infatti evidenti aree di miglioramento per coltivare prospettive di sviluppo e diffusione della coprogettazione e, soprattutto, della coprogrammazione in grado di adattarsi ai diversi contesti di policy[8].

 

Fig. 2. Miglioramento e sviluppo delle pratiche collaborative: raccomandazioni

Fonte: rielaborazione da Maino (2023, p. 252).

Predisporsi al cambiamento. Adottare pratiche collaborative significa non temere la complessità e adottare una visione disruptive del cambiamento per generare discontinuità rispetto a prassi consolidate ma inefficaci e investire sull’innovazione di processo e prodotto. Comporta quindi spogliarsi dalle tradizionali logiche del modello competitivo e assumere una “postura” trasformativa evitando la difesa dello status quo. Tutti gli attori - pubblici e privati - sono sollecitati a mettersi in gioco in questa direzione. L’ente pubblico è chiamato a un necessario capovolgimento di approccio, per cui la responsabilità istituzionale non è più esercitata attraverso il governo diretto ma animando, potenziando e coordinando attori e risorse presenti sul territorio. Questo porta con sé un'autentica revisione degli stili di governance, orientati a stimolare e condividere piuttosto che a esercitare potere. Gli enti del Terzo Settore non possono più proporsi in modo frammentato, con eccessive propensioni autoreferenziali e competitive. Devono rafforzare le loro capacità imprenditoriali e di condivisione delle responsabilità di governo del welfare locale, emancipandosi da un’eccessiva dipendenza dalle iniziative degli enti pubblici e aprendosi alla costruzione di rapporti con il mondo profit e a sistemi di governance collaborativi. Società civile, imprese e organizzazioni profit devono a loro volta sentirsi interrogate dalle transizioni in corso e proporsi come partner delle reti.

Riconoscere la multidimensionalità dei fenomeni e la cross-settorialità degli interventi. Di fronte a problemi sociali multidimensionali e dalle cause complesse, difficilmente trattabili con approcci lineari, le risposte sono più efficaci se frutto di collaborazioni, alleanze e partnership che mettono in sinergia competenze e capacità di azione. Per affrontare problemi eco-sociali complessi occorrono informazioni, conoscenze e competenze ma anche linee di metodo e indirizzi operativi tipici delle pratiche collaborative. Tra i diversi strumenti collaborativi, coprogrammazione e coprogettazione sono utili a contestualizzare le intenzioni e gli obiettivi della cross-settorialità e di tradurli in pratica, promuovendo azioni, interventi, programmi che intrecciano gli interessi degli attori locali verso iniziative volte a rispondere a preoccupazioni comuni e a sviluppare interventi condivisi. Nel costruire collaborazioni e progetti in partnership che attraversano confini disciplinari o appartenenze settoriali vengono così messe a valore comune idee, energie e prospettive di intervento praticabili.

Aprirsi alla collaborazione. La decisione di ricorrere alla coprogettazione e alla coprogrammazione o ad altre pratiche collaborative non può avvenire per caso. Richiede consapevolezza rispetto al fatto che l’integrazione di risorse materiali e immateriali da parte di un ampio numero di soggetti sia la soluzione più adeguata per rispondere a uno specifico problema sociale rispetto all’impiego di strumenti alternativi maggiormente orientati alla competizione. Non basta essere accomunati da un generico interesse a lavorare insieme. Collaborare rappresenta l’esito di un consapevole investimento relazionale teso a favorire lo sviluppo di reciproci riconoscimenti e assi fiduciari (Brunod et al. 2016) e insieme della conoscenza delle logiche e degli strumenti che possono rendere possibile le pratiche collaborative. A fronte di sfide sociali non rinviabili cresce la disponibilità ad attraversare i confini aprendo spazi di dialogo che consentano di riconoscere non solo multi-appartenenze e identità sfumate, ma anche una comune capacità di azione agendo attraverso un paradigma collaborativo in grado di mettere a fattor comune capacità, risorse, strutture ed esperienze per produrre soluzioni innovative e benefici collettivi.

Investire sulla conoscenza reciproca degli attori coinvolti. È necessario dedicare tempo e spazio alla conoscenza reciproca e continuativa degli attori coinvolti ricorrendo a tecniche che riconoscano il contributo di tutti e permettano di valorizzare al meglio le risorse di ciascun partner della rete. Servono occasioni dedicate al confronto e alla conoscenza delle reciproche caratteristiche e peculiarità. Ed è importante curare le relazioni esterne tra le organizzazioni al pari delle relazioni interne alla singola organizzazione, per definire il ruolo di ciascuno nel processo di coprogettazione. Nella costruzione di nuove relazioni imperniate sulla collaborazione tra attori di natura diversa è centrale il concetto di cultura organizzativa per svelare i pregiudizi reciproci e transitare verso il riconoscimento dell’altro come risorsa. Il pregiudizio può rappresentare un ostacolo alla collaborazione (De Ambrogio 2018) sia impedendo di raggiungere i risultati progettuali, sia allontanando i partner della rete che, rinforzati nei propri pregiudizi, non riproveranno in futuro a collaborare.

Curare la fase di avvio. L’impostazione della fase iniziale del ciclo di vita di una partnership è centrale per la costruzione di una relazione simmetrica tra i partner e rilevante per la strutturazione dell’intero percorso di programmazione, progettazione, attuazione e valutazione. Risulta opportuno nella fase di avvio curare alcuni aspetti. In primo luogo, ridurre il gap informativo tra gli enti, a partire dalla conoscenza rispetto al quadro regolativo e procedurale della coprogrammazione e della coprogrammazione, laddove siano adottati tali strumenti collaborativi. In secondo luogo, la condivisione di dati, precedenti esperienze, valutazioni e analisi consente a tutti i partecipanti di disporre dei medesimi strumenti di lettura e comprensione del contesto riducendo in particolare il divario conoscitivo esistente tra l’ente pubblico e gli altri soggetti. In terzo luogo, è opportuno definire i ruoli e le funzioni all’interno del partenariato per non creare o alimentare contrapposizioni e conflitti. Risulta quindi necessario un chiarimento in due direzioni: all’interno della propria organizzazione per non creare confusione e sovrapposizione tra le posizioni e una possibile ingessatura del processo decisionale; all’esterno, nel rapporto con gli altri partner, per facilitare la collaborazione tra enti e il raggiungimento degli obiettivi progettuali. Infine, nella prospettiva di un crescente ricorso - nei prossimi anni - alla coprogrammazione che vede l’ente pubblico ricoprire un ruolo di titolarità complessiva dell’intervento diventa essenziale che ogni soggetto della rete possa collocarsi con nitidezza all’interno della relazione di coprogettazione, esplicitando aspettative, competenze e responsabilità individuali e condivise.

Definire e strutturare modelli di governance collaborativa. Il setting e le regole per la presa delle decisioni sono aspetti essenziali per la riuscita delle pratiche collaborative. Costruire strumenti organizzativi, articolati su più livelli e in grado di abilitare alla cross-settorialità, è ritenuto utile rispetto alla possibilità di dotare i progetti e gli stakeholder coinvolti di spazi di riflessione, confronto e autovalutazione e di permettere il riconoscimento dei progressi realizzati e/o delle situazioni più critiche, così da poter intervenire in itinere. Non si tratta di creare una rigida sovrastruttura organizzativa fatta di regole e procedure, bensì di riconoscere la rilevanza di una governance collaborativa rispetto al funzionamento del partenariato e alla ragione stessa della collaborazione: migliorare le capacità di intervento sociale e di risposta ai bisogni.

Allineare la visione politica e strategica con le competenze tecniche e attuative. La diffusione delle pratiche collaborative mostra come anche i decisori politici locali siano disposti ad aprirsi a un’ampia gamma di idee e pratiche nuove e metterle al centro dell’agenda di policy locale. Questo chiama in causa la politica per ripensare le relazioni tra domande/bisogni della comunità e risposte sotto forma di politiche pubbliche. Scegliere di avviare una pratica collaborativa orientata alla definizione di strategie generali d'intervento è una scelta politica e quindi non è neutrale rispetto a come impiegare risorse pubbliche, scegliere gli obiettivi e i target, definire le procedure. E non lo è se tali scelte sono l’esito di un percorso partecipato che riconosce al Terzo Settore, alla società civile, alla cittadinanza (ma anche ad organizzazioni profit quando non sono mosse dal profitto) la capacità di attivarsi autonomamente per la realizzazione del bene comune. Tale attivazione ribalta i rapporti con l’ente pubblico, chiamato così ad assumere un ruolo abilitante che riconosce come l’autonoma iniziativa degli attori locali, la convergenza di obiettivi per individuare bisogni sociali complessi da soddisfare (e relativi interventi), l’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione si collochino - come recita la Sentenza 31/2020 della Corte Costituzionale - “al di là del mero scambio utilitaristico” che possano portare a “servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale”. In questo modo le pratiche collaborative e, in particolare, coprogettazione e coprogrammazione identificano una logica di esercizio del potere politico capace di favorire l’emersione dal basso di indicazioni e prospettive di azione che i decisori traducono in scelte condivise nell’interesse della collettività (Pisani 2023). È dentro questa cornice che assumono rilevanza la convergenza di approcci e posizioni tra la parte politica e la parte tecnica e un allineamento che permetta di avviare e realizzare processi collaborativi, evitando di “ricadere in una spirale che riproduce e alle volte enfatizza i problemi che hanno portato alla crisi del welfare mix nazionale” (Fazzi 2023, 132). Per questo è auspicabile un allineamento tra la visione politica e le competenze attuative prevedendo per entrambe sia un effettivo spazio di ascolto nei processi decisionali sia un coordinamento tra il livello decisionale e di indirizzo strategico, quello operativo ed esecutivo e quello chiamato a valutare effetti e impatti generati.

Prevedere figure professionali di facilitazione e coordinamento. Le dinamiche relazionali alla base delle pratiche collaborative - concordemente ritenute impegnative - chiamano in causa la necessità di affidarsi a figure professionali come i facilitatori. La conduzione di processi partecipativi e inclusivi richiede competenze specifiche, in grado di misurarsi con il difficile equilibrio tra istanze contrapposte e interessi particolari. Un facilitatore esterno ha il vantaggio di non dover avanzare o rappresentare alcuna posizione rispetto agli obiettivi e all’esito della collaborazione perché il suo unico interesse è far raggiungere ai partecipanti un risultato condiviso attraverso un impegno sostenibile di risorse organizzative, finanziarie e simboliche. Il facilitatore è quindi chiamato ad adoperarsi nel favorire il confronto, facilitare l’interazione e l’ascolto, assistere ai negoziati, occuparsi delle dinamiche di rete e gestire i conflitti.

Nella cornice delle raccomandazioni proposte le pratiche collaborative aprono quindi spazi ideativi finalizzati a consentire di identificare e di mettere in agenda problemi trasversali rilevanti per le comunità e i territori; di riconoscere la diversità degli attori locali, le loro specificità, le concrete possibilità di ingaggio, la loro capacità di contribuire ai processi; di avviare collaborazioni e partnership tra attori di settori e ambiti territoriali differenti; di promuovere iniziative, azioni e progetti che connettono dimensioni ambientali, sociali, educative e culturali; di mettere in campo competenze interdisciplinari in grado di coinvolgere e raccordare sensibilità diverse oltre che comunicare apprendimenti e risultati comuni.

5. Conclusioni

L’analisi proposta evidenzia opportunità e sfide per le pratiche collaborative. Tra queste, in futuro la coprogettazione e la coprogrammazione potranno consolidarsi e divenire gli strumenti designati per definire politiche e servizi sociali più mirati ed efficaci rispetto all’evoluzione dei rischi sociali; favorire l’integrazione dei servizi socio-assistenziali territoriali, ancora troppo spesso caratterizzati da logiche di intervento “a silos”; ampliare e istituzionalizzare la partecipazione degli attori locali alle reti multiattore e multilivello e ai processi collaborativi, corroborando l’affermazione del principio di corresponsabilità; sviluppare strumenti di misurazione dell’impatto, garantendo una programmazione di lungo periodo secondo obiettivi e risultati condivisi.

Tuttavia, la strada da percorrere per cogliere queste opportunità appare - almeno a tratti - ancora accidentata. La ricerca, infatti, ha individuato tre sfide da superare: dare continuità al cambio di paradigma in corso per superare resistenze culturali e stratificazioni e/o cristallizzazioni di pratiche, procedure e idee dominanti; programmare avendo un orizzonte di medio e lungo periodo, allo scopo di definire obiettivi (e mettere in campo interventi) che sappiano generare un impatto sociale anche in futuro; sostenere il capacity building delle organizzazioni coinvolte nelle reti multiattore, adeguando la capacità di indirizzo del decisore e quella operativa dell’amministrazione alle trasformazioni richiesti ai soggetti del Terzo settore, del Mercato e della società civile.

E qui, nelle conclusioni, ne aggiungiamo una quarta. Le pratiche collaborative e in particolare la coprogettazione - quella oggi più diffusa tra esse - è diventata un obiettivo di policy in sé: gli attori del welfare locale - inclusi i professionisti esperti di pratiche collaborative - si impegnano e investono tempo e risorse nei processi di coprogettazione (e nella creazione, ampliamento, mantenimento delle reti multiattore che sono parte dei processi collaborativi). Di conseguenza gli obiettivi, gli strumenti adottati, le misure introdotte sono valutate positivamente anche perché esito della coprogettazione o comunque di una pratica collaborativa. I partecipanti - pur cogliendo criticità e limiti, oltre che gli squilibri di potere e l'influenza esercitata da attori politici ed economici specifici - rischiano quindi di perdere uno sguardo critico perché essi stessi implementano la coprogettazione e le misure che ne derivano. Un rischio tanto più alto quando la gestione di processi collaborativi manca di competenze specifiche e risorse. Non va infatti dimenticato che le pratiche collaborative richiedono risorse in grandi quantità e facilmente le assorbono. Da qui la sfida di investire sempre di più sul monitoraggio e la valutazione dei processi collaborativi per poter misurarne l’impatto.

10.7425/IS.2024.02.11

 

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[1] Per la nota metodologica si rimanda a Maino (2023, pp. 69-78).

[2] Per approfondire si rimanda, tra gli altri, a Pavolini (2003), Marocchi (2020), Guarna e Maino (2023).

[3] Si tratta di una stagione ben diversa da quella che aveva portato alcune Regioni a dotarsi di norme regionali a partire dal DPCM 30/3/2001. Sul punto di rimanda a Moschetti (2016).

[4] Per approfondire si rimanda a Gallo (2020) e Gori (2020).

[5] Per un maggiore approfondimento si veda Bonomi e Guarna (2023).

[6] Le teorie organizzative - riferendosi all’integrazione tra diverse politiche, materie e attori - hanno coniato la metafora della canna d’organo (Morgan 1986; Bifulco et al. 2012) per indicare una struttura che spende energie principalmente nello stabilire e mantenere confini netti fra le competenze e fra le attività, in ragione dei ruoli svolti e dei saperi detenuti.

[7] Per approfondimenti si rimanda a De Tommaso e Maino (2023).

[8] Spunti e indicazioni ulteriori (per molti versi in linea con quanto emerso nel Sesto Rapporto sul secondo welfare) si trovano in Fazzi (2023).

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