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ISSN 2282-1694
impresa-sociale-2-2024-la-riconfigurazione-degli-spazi-del-terzo-settore-tramite-una-logica-collaborativa

Numero 2 / 2024

Saggi

La riconfigurazione degli spazi del Terzo settore tramite una logica collaborativa

Stefano Rodighiero, Carlo Fusari, Fabrizio Montanari, Alberto Monti, Patrizia Saroglia


Abstract

La ricerca di un maggiore coinvolgimento della comunità e degli attori locali e la realizzazione di nuove progettualità in grado di aumentare il proprio radicamento nel territorio stanno portando le organizzazioni del Terzo settore a caratterizzare il proprio operato tramite approcci sempre più inclusivi e collaborativi. L’adozione di tali approcci da parte delle organizzazioni del Terzo settore può essere favorita anche da una riconfigurazione delle caratteristiche, delle funzioni e delle modalità di utilizzo dei propri spazi fisici che tragga ispirazione dal recente fenomeno degli spazi collaborativi. Attraverso la presentazione dei casi di Fondazione Amendola e Panacea Social Farm, il presente studio intende proporre un modello identificativo delle pratiche con cui le organizzazioni del Terzo settore possono gestire la riconfigurazione dei propri spazi fisici in veri e propri hub di comunità tramite una logica inclusiva e collaborativa che consenta loro di “ibridare” funzioni e attività offerte, di coinvolgere maggiormente comunità e attori locali e di aumentare la propria centralità e il proprio radicamento nel territorio.

Parole chiave: spazi collaborativi, Terzo settore, hub di comunità, spazi fisici

Introduzione

Negli ultimi anni, le organizzazioni del Terzo settore hanno iniziato a rapportarsi con il proprio territorio attraverso approcci più collaborativi centrati sull’ascolto diretto delle istanze locali e su una maggiore apertura verso contributi esterni (Sacchetti, 2018; Tricarico e Le Xuan, 2013; Venturi e Baldazzini, 2023). Molte organizzazioni hanno infatti visto questo approccio come uno strumento importante per aumentare la propria centralità e radicamento nella realtà territoriale in cui operano (Ambrosini e Boccagni, 2009; Venturi e Baldazzini, 2023). A tal fine, molte organizzazioni del Terzo settore hanno implementato progetti contraddistinti da modelli di governance aperta e a stakeholder multipli (ad esempio, istituzioni locali e associazioni che si pongono come diretta espressione delle istanze della comunità locale), con cui condividere risorse, responsabilità e decisioni operative (si veda anche Sacchetti, 2018). Un ulteriore esempio di maggiore inclusività e collaborazione riguarda il crescente utilizzo nel Terzo settore di strumenti e metodologie (living lab, focus group, call for ideas, dibattiti pubblici, ecc.) per favorire il coinvolgimento diretto e la raccolta delle diverse istanze della comunità locale nelle fasi di progettazione di interventi di rigenerazione urbana o di iniziative di ridefinizione di servizi educativi o socioassistenziali con forti ricadute pubbliche (Bianchi, 2021; Brorström e Willems, 2023; Tricarico e Le Xuan, 2013). L’adozione di approcci inclusivi e collaborativi può trovare applicazione anche nella riconfigurazione da parte delle organizzazioni del Terzo settore delle caratteristiche, delle funzioni e delle modalità di utilizzo dei propri spazi fisici.

Per comprendere come la riconfigurazione degli spazi fisici possa rappresentare uno strumento per le organizzazioni del Terzo settore per incrementare la propria centralità e radicamento nel territorio, è opportuno fare riferimento agli studi condotti sul fenomeno degli spazi collaborativi, cioè tutti quei luoghi come i coworking, i fab-lab, gli incubatori o gli hub creativi in cui persone con differenti background (formativi, professionali, settoriali, ecc.) svolgono le proprie attività a stretto contatto l’una con l’altra e condividono le stesse risorse pur non lavorando necessariamente per la stessa organizzazione o su uno stesso progetto (si veda Montanari, 2023). Gli studi condotti sul tema hanno evidenziato i diversi benefici che questi spazi possono apportare sia ai loro utenti sia al territorio di riferimento. Ad esempio, gli spazi collaborativi promuovono lo scambio di informazioni e le interazioni tra i propri utenti favorendo i processi creativi e innovativi (Capdevila, 2015). Allo stesso modo, essi offrono ambienti di lavoro condivisi a costi contenuti che rispondono ai bisogni di lavoratori autonomi o precari (Merkel, 2019). Gli spazi collaborativi si contraddistinguono anche per il fatto di coinvolgere i diversi attori di un territorio (università, associazioni, istituzioni culturali, istituzioni locali, imprese, ecc.), supportando così la condivisione e lo sviluppo di progettualità ed esperienze condivise in grado di avere una ricaduta positiva sul territorio (Ivaldi et al., 2021). Tali spazi si contraddistinguono anche per un’ampia offerta di attività (workshop, seminari, eventi culturali, ecc.) e servizi (di formazione, di consulenza, amministrativi, ecc.) che intercettano, attraendole, persone e organizzazioni che altrimenti faticherebbero a entrare in contatto tra loro (Gandini e Cossu, 2021; Ivaldi et al., 2021). Infine, la logica aperta e collaborativa che contraddistingue gli spazi collaborativi favorisce un forte senso di appartenenza nei loro interlocutori e riesce a coinvolgere diversi attori del territorio (Busacca et al., 2022), creando occasioni per partecipare alla progettazione e all’erogazione di iniziative di natura sociale e moltiplicando dunque il valore che può essere restituito al territorio.

Se è vero che le aziende operanti nei settori tradizionali dell’economia stanno cercando di applicare la logica che contraddistingue gli spazi collaborativi (Cartel et al., 2019; Heinzel et al., 2021; Ungureanu et al., 2020), può essere rilevante anche per chi opera nel Terzo settore guardare con interesse al fenomeno degli spazi collaborativi come framework interpretativo per riconfigurare le proprie sedi al fine di aumentare la centralità e radicamento nel territorio. Il presente studio affronta questo tema approfondendo i casi di due organizzazioni del Terzo settore – Fondazione Amendola e Panacea Social Farm – che stanno attualmente attraversando un processo di cambiamento organizzativo che riguarda anche una riflessione sulle proprie sedi. Grazie allo studio delle due organizzazioni, si vuole proporre un modello identificativo delle pratiche con cui le organizzazioni del Terzo settore possono gestire la riconfigurazione dei propri spazi fisici secondo una logica collaborativa.

L’articolo è strutturato come segue: dopo aver illustrato il fenomeno degli spazi collaborativi e la loro logica collaborativa, discuteremo i casi studio di Fondazione Amendola e Panacea Social Farm e le pratiche che possono favorire una riconfigurazione degli spazi in chiave collaborativa. Infine, nell’ultimo paragrafo discuteremo le implicazioni dei risultati emersi.

Gli spazi del Terzo settore in una logica collaborativa: un quadro teorico di riferimento

Gli spazi collaborativi sono luoghi dove persone con diversi profili professionali e provenienti da diverse organizzazioni, se non anche da diversi settori, lavorano l’una accanto all’altra (Spinuzzi, 2012). In questo “termine ombrello” rientra un insieme ampio e variegato di spazi che va dai coworking ai fab-lab, dagli hub di innovazione sociale a quelli culturali e di incubazione di imprese sociali (si veda Rodighiero et al., 2022). Le diverse tipologie di spazi collaborativi sono accomunate dall’offerta di facilities e servizi condivisi. Oltre a garantire l’accesso agevolato ad alcune particolari categorie di lavoratori (precari, professionisti nelle fasi iniziali della propria carriera, ecc.), questi spazi hanno come obiettivo quello di sostenere lo sviluppo di pratiche collaborative tra i propri utilizzatori (Avdikos e Iliopoulou, 2019; Capdevila, 2015) e tra questi e gli attori del territorio, quali università, associazioni, istituzioni culturali, imprese o pubblica amministrazione (si veda Montanari, 2023).

Lo sviluppo degli spazi collaborativi è legato ad alcuni fenomeni socioeconomici che hanno attraversato l’ultimo decennio, tra cui le trasformazioni nel mondo del lavoro, la necessità di rigenerare aree urbane periferiche in stato di degrado e l’affermazione di nuovi modelli di innovazione collaborativa e aperta, i quali hanno riguardato anche molte iniziative a vocazione sociale (Gandini e Cossu, 2021; Ivaldi et al., 2021; Scapolan et al., 2022). Per quanto riguarda il primo fattore, gli ultimi anni sono stati caratterizzati da un ripensamento delle modalità di lavoro e da una crescente flessibilità per molte categorie professionali. Tali trasformazioni hanno riguardato non solo imprenditori e liberi professionisti, ma anche quei lavoratori dipendenti che hanno potuto svolgere le proprie attività da remoto, soprattutto dopo la pandemia (Howell, 2022). Gli spazi collaborativi si sono innestati in tali trasformazioni consentendo a molti lavoratori di contrastare l’“atomizzazione” e l’isolamento sociale e di raggiungere un migliore bilanciamento vita-lavoro (Garrett et al., 2017; Scapolan et al., 2022).

Per quanto riguarda il secondo fattore, gli spazi collaborativi sono stati utilizzati negli ultimi anni come uno strumento di politica di rigenerazione urbana e di sviluppo di iniziative a vocazione sociale (si veda Avdikos e Papageorgiou, 2021). In tal senso, gli spazi collaborativi sono luoghi che favoriscono la circolazione di risorse cognitive e materiali e che moltiplicano le opportunità di collaborazione, generando ricadute positive sul territorio in termini sociali, culturali e anche imprenditoriali (Mariotti et al., 2017; Tricarico et al., 2022).

Lo sviluppo degli spazi collaborativi, infine, si lega anche all’emersione di modelli di innovazione aperta e collaborativa in cui la contaminazione reciproca di conoscenze ed esperienze tra attori appartenenti a diversi settori gioca un ruolo cruciale (si veda Chesbrough, 2003). In tal senso, gli spazi collaborativi vengono spesso definiti come “luoghi terzi” (Oldenburg, 1989), cioè in grado di offrire la possibilità di vivere un’atmosfera neutra che favorisce uno scambio di informazioni e forme di interazione più spontanea (Capdevila, 2015). Anche la porosità dei confini – organizzativi e fisici – degli spazi collaborativi è molto importante per l’attivazione di flussi inbound e outbound essenziali per la promozione di modelli innovativi aperti e collaborativi (Lichtenthaler, 2011; Montanari e Mizzau, 2016). Nello specifico, i flussi inbound riguardano il coinvolgimento degli spazi collaborativi in progetti e iniziative di attori esterni quali università, imprese, decisori pubblici o privati cittadini grazie all’offerta temporanea di attrezzature e servizi; i flussi outbound, al contrario, riguardano la trasmissione all’esterno di progetti e iniziative sviluppati all’interno degli spazi stessi, al fine di renderli più visibili e riconoscibili e di radicarli nel territorio, alimentando in tal modo ulteriori flussi di coinvolgimento inbound (si veda Montanari e Mizzau, 2016).

Molte aziende che operano in settori tradizionali stanno già applicando i principi distintivi di apertura, collaborazione e contaminazione che caratterizzano gli spazi collaborativi, ad esempio ridisegnando le caratteristiche fisiche ed estetiche dei propri ambienti di lavoro per stimolare la generazione di idee creative (Cartel et al., 2019) o aprendo i propri confini fisici (e organizzativi) ad attori esterni all’azienda da poter coinvolgere in progetti di innovazione aperta e collaborativa (Ungureanu et al., 2020). Gli elementi distintivi di apertura, collaborazione e contaminazione reciproca sono già caratterizzanti della cultura delle organizzazioni del Terzo settore e possono essere applicati da tali organizzazioni per attivare possibili trasformazioni volte ad aumentare la propria centralità e il proprio radicamento nel territorio. In tal senso, diventa importante comprendere come le organizzazioni del Terzo settore possano utilizzare tali elementi distintivi al fine di riconfigurare i propri spazi fisici al fine di coinvolgere attivamente la comunità locale, di rispondere con efficacia ai bisogni sociali espressi con più urgenza dal territorio e di “ibridare” diverse funzioni e attività. Il presente studio esplora questo tema approfondendo i casi di due organizzazioni del Terzo settore che stanno attraversando un processo di cambiamento organizzativo che riguarda anche le modalità di utilizzo delle proprie sedi. L’obiettivo è quello di proporre un modello identificativo delle pratiche con cui le organizzazioni del Terzo settore possono gestire la riconfigurazione dei propri spazi fisici tramite una logica collaborativa superando eventuali difficoltà e problematiche (sia interne sia esterne).

Lo studio empirico

2.1. I casi selezionati

Fondazione Amendola e Panacea Social Farm sono due organizzazioni torinesi che stanno affrontando un processo di cambiamento organizzativo finalizzato a supportare il loro impatto sul territorio[1].

Fin dalla sua istituzione nel 1982, Fondazione Amendola ha incarnato i valori di apertura ed eterodossia caratterizzanti il pensiero amendoliano[2], distinguendosi quindi per un impegno attivo nel promuovere il cambiamento sociale nella propria comunità di riferimento. A tal fine, Fondazione Amendola propone diverse iniziative che spaziano dalla promozione di percorsi educativi rivolti a diversi pubblici, alla valorizzazione culturale attraverso la pubblicazione della rivista “Il Rinnovamento” e l’organizzazione di attività espositive, convegnistiche e di divulgazione. La linea programmatica delle iniziative proposte dalla Fondazione viene definita dal Consiglio d’Amministrazione in collaborazione con un Comitato Scientifico composto dal Direttore Scientifico della Fondazione e da sedici esperti appartenenti al mondo accademico, artistico e culturale locale. Da un punto di vista operativo, la Fondazione impiega tre persone: il Direttore Generale (il quale si occupa anche della gestione del personale), la responsabile della segreteria organizzativa e la direttrice della biblioteca (la quale si occupa anche della gestione dalla Fondazione). La Fondazione si avvale anche di tre collaboratori esterni: un direttore artistico (il quale si occupa della programmazione del calendario delle mostre e degli eventi culturali della Fondazione), un project manager (il quale si occupa di progettazione e ricerca fondi) e un’esperta di supporto alla catalogazione libraria della biblioteca della Fondazione. Infine, la Fondazione può avvalersi di 15 volontari e di una rete di oltre 200 sostenitori esterni che ne supportano la sostenibilità economica e l’organizzazione delle diverse iniziative. Dal 2006, la Fondazione si è trasferita in una nuova sede situata nel quartiere periferico e multietnico di Barriera Milano. La sede si sviluppa su 900 metri quadri disposti a forma di ferro di cavallo e in cui, da un lato, sono presenti gli uffici dei dipendenti, la biblioteca e una sezione dedicata ai bambini e, dall’altro, sono presenti tre spazi dedicati nello specifico alle attività espositive e convegnistiche, di cui uno spazio dedicato a una mostra permanente su Carlo Levi.

Panacea Social Farm è una cooperativa sociale creata nel luglio 2017 come spin-off della cooperativa Articolo 4, un’organizzazione impegnata nell’inserimento lavorativo di persone in condizione di vulnerabilità. Con l’obiettivo di ampliare la portata culturale e sociale dei progetti sperimentati in Articolo 4 nei tre anni precedenti, Panacea Social Farm è nata con l’obiettivo di promuovere pratiche di panificazione e di produzione e consumo alimentare sostenibili. A tal fine, Panacea Social Farm ha creato una filiera di produzione e distribuzione che va dalla coltivazione di grani antichi nel Parco Naturale di Stupinigi alla vendita diretta in quattro punti vendita di prodotti alimentari di prossimità e sostenibili. Dal punto vista organizzativo, Panacea Social Farm impiega 18 persone: due svolgono attività amministrative e di gestione del personale, sette si occupano della produzione di prodotti alimentari, sette sono addette alla vendita (nei punti vendita di Panacea Social Farm e in mercati, fiere e manifestazioni locali) e due si occupano di attività di comunicazione e marketing. Oltre a queste figure professionali, Panacea Social Farm si avvale di cinque volontari e tre collaboratori esterni. Gli spazi di produzione e vendita di Panacea Social Farm sono dislocati in più luoghi dell’area metropolitana di Torino: la produzione del pane avviene nel forno di Via Baltea nel quartiere di Barriera Milano, mentre la vendita avviene tramite tre panetterie di proprietà presenti in diversi quartieri di Torino (Centro, San Salvario e Cit Turin) e una a Stupinigi. Oltre a questi luoghi, Panacea Social Farm è presente sul territorio anche tramite la partecipazione a mercati, fiere e manifestazioni locali. A partire dal 2021, Panacea Social Farm ha dedicato crescenti risorse anche allo sviluppo di attività di promozione culturale, tra cui ad esempio numerose iniziative di divulgazione dell’agricoltura sostenibile e dell’alimentazione sana organizzate presso il forno di Via Baltea, a sua volta inserito in una ex tipografia rigenerata di 900m2 e in cui Panacea Social Farm opera insieme ad altre realtà locali (una gastronomia, un bar, uno studio artistico, una scuola di jazz, ecc.).

2.2. Metodologia

Il presente studio adotta la metodologia del case study (Yin, 2009) per analizzare i processi di cambiamento in atto presso Fondazione Amendola e Panacea Social Farm e che riguardano un ripensamento dei propri spazi in una logica di maggiore apertura e collaborazione con il territorio. In tal senso, lo studio approfondisce le motivazioni sottostanti alla riconfigurazione delle proprie sedi da parte di Fondazione Amendola e Panacea Social Farm, le principali criticità affrontate e le pratiche messe in campo dalle due organizzazioni per gestire la riconfigurazione delle proprie sedi.

I dati sono stati raccolti combinando tre fonti principali: i documenti ufficiali prodotti da Fondazione Amendola e Panacea Social Farm, otto interviste semi-strutturate (quattro interviste per ciascuna organizzazione) e l’osservazione diretta.

L’analisi delle fonti documentali (sito web, documenti di natura strategica, operativa e contabile, ecc.) ha permesso di individuare e comprendere meglio quali siano le tematiche e le istanze di maggior rilievo per il processo di cambiamento organizzativo (sia in generale sia in riferimento agli spazi fisici) che le due organizzazioni analizzate stanno attualmente affrontando.

L’individuazione di tali tematiche e istanze è stata di particolare utilità nella definizione del protocollo d’intervista, il quale ha avuto l’obiettivo di approfondire come i rappresentanti di Fondazione Amendola e Panacea Social Farm interpretino il processo di riconfigurazione delle proprie sedi, come entrambe le organizzazioni stiano di fatto gestendo tale riconfigurazione e come tutto ciò possa aiutare le due organizzazioni ad avere maggiore centralità e radicamento nel territorio. In particolare, il protocollo d’intervista ha investigato quattro macro-aspetti: 1) funzioni, attività, utilizzatori e obiettivi istituzionali delle sedi; 2) percezioni su come i membri dell’organizzazione e gli utenti esterni (associazioni, istituzioni locali, comunità locale, ecc.) interagiscano con le sedi; 3) caratteristiche fisiche delle sedi (dimensioni, numero di persone ospitabili, attrezzature e servizi offerti, ecc.); 4) cambiamenti in corso e prospettive future delle sedi. Gli intervistati sono stati selezionati seguendo una strategia di campionamento mirato e non probabilistico (Biernacki e Waldorf, 1981) che ha coinvolto key informants provenienti da tutte le principali aree organizzative di Fondazione Amendola e Panacea Social Farm e in grado di fornire spunti interessanti per gli obiettivi della presente ricerca. Per Fondazione Amendola sono stati intervistati il presidente, il direttore generale, il direttore artistico e la responsabile della segreteria organizzativa, mentre per Panacea Social Farm sono stati intervistati il responsabile amministrativo e presidente, il coordinatore del personale, il responsabile della produzione e il responsabile delle attività di comunicazione e marketing. Le interviste sono state condotte a gennaio 2023 e hanno avuto una durata compresa tra 40 e 60 minuti. Le risposte fornite dagli intervistati sono state analizzate in parallelo al processo di raccolta dei dati.

Infine, per quanto riguarda l’osservazione diretta, alcuni degli autori hanno visitato le sedi delle due organizzazioni, osservandone in prima persona gli spazi fisici e intrattenendo conversazioni informali sia con alcuni membri delle organizzazioni sia con alcuni utilizzatori esterni. L’osservazione diretta è stata utilizzata per acquisire una comprensione più approfondita degli spazi oggetto di riconfigurazione e delle attività che si svolgono al loro interno, nonché delle modalità con cui i diversi utenti interagiscono con gli spazi e con cui, più in generale, le due organizzazioni stimolano il coinvolgimento e lavorano assieme agli altri attori locali nell’erogare le attività offerte.

Dal punto di vista analitico, gli autori hanno analizzato il materiale raccolto utilizzando il processo iterativo suggerito da Strauss e Corbin (1990). In particolare, i dati sono stati prima analizzati autonomamente dai singoli autori, i quali hanno poi condiviso e discusso le proprie interpretazioni personali in specifici momenti di confronto al fine di raggiungere un’interpretazione quanto più condivisa possibile riguardo a quanto evidenziato dai dati raccolti. Ciò ha permesso anche di triangolare le evidenze emergenti dalle diverse fonti utilizzate lungo tutto il processo di analisi (Eisenhardt, 1989). Oltre ai motivi specifici alla base della riconfigurazione delle proprie sedi, l’analisi dei dati raccolti ha fatto emergere tre pratiche messe in campo da Fondazione Amendola e Panacea Social Farm per gestire la riconfigurazione delle proprie sedi tramite una logica collaborativa: “armonizzazione interna” (comprendente tutte le attività volte a mantenere un contesto organizzativo coeso, ad allineare i membri interni sugli obiettivi da raggiungere e a sviluppare competenze adeguate a gestire la riconfigurazione degli spazi); “comunicazione dell’identità organizzativa” (comprendente tutte le attività volte a comunicare ai diversi interlocutori interni ed esterni i propri tratti organizzativi distintivi nel corso della riconfigurazione degli spazi); “attivazione del territorio” (comprendente tutte le attività volte a promuovere il coinvolgimento e la coesione della comunità locale e degli attori locali nel corso della riconfigurazione degli spazi).

La prossima sezione illustra nel dettaglio i risultati emersi focalizzandosi sui motivi che hanno portato le due organizzazioni a riconfigurare le proprie sedi tramite una logica collaborativa e le tre pratiche – e le specifiche attività che le compongono – messe in campo.

Risultati

Fondazione Amendola e Panacea Social Farm hanno partecipato nel 2022 alla seconda edizione del bando Next Generation You con l’obiettivo di incrementare le proprie capacità di interloquire e di sviluppare collaborazioni con gli altri attori locali e, di conseguenza, di aumentare la propria centralità e il proprio radicamento nel territorio. La partecipazione al bando ha rappresentato per le due organizzazioni un’importante occasione per riflettere sulla propria situazione attuale (valori, risorse e competenze interne, ecc.), per ripensare in modo più strutturato il proprio ruolo per il territorio e la propria struttura interna (obiettivi strategici, modifiche necessarie per migliorare l’efficienza e l’efficacia del proprio operato, target di pubblici da intercettare, ecc.) e per impostare nuove iniziative volte a rendere le proprie sedi più aperte alla collaborazione con i diversi attori locali.

Per quanto riguarda le motivazioni che hanno spinto le due organizzazioni a iniziare un percorso di riconfigurazione delle proprie sedi, le analisi hanno evidenziato innanzitutto la volontà dei responsabili delle due organizzazioni di ampliare la base di utenti: “Una delle difficoltà principali riscontrate è quella di coinvolgere il quartiere in modo attivo negli spazi, rendendo la nostra sede un luogo veramente vissuto e partecipato, non solo visitato occasionalmente” (intervistato #2). In tal senso, non solo Fondazione Amendola e Panacea Social Farm intendono intercettare un numero più elevato di utenti, ma vogliono raggiungere anche target attualmente poco raggiunti come i giovani (“c’è una mancanza di frequentazione da parte di persone tra i 25 e i 40 anni” – intervistato #2), e ampliare il proprio network di relazioni sul territorio “cercando nuovi ambiti e nuove partnership” (intervistato #5). A tal fine, gli intervistati concordano sull’importanza di “coinvolgere di più le persone e rendere lo spazio più attivo, aperto e contaminato” (intervistato #3).

Fondazione Amendola e Panacea Social Farm identificano questa riconfigurazione degli spazi come una possibilità per esprimere e strutturare al meglio le proprie capacità – in parte già esistenti – di progettare ed erogare un insieme più ampio e articolato di iniziative che completino la loro attuale offerta (corsi di formazione, attività culturali, ecc.). Gli intervistati, in particolare, concordano sull’importanza di proporre attività anche attraverso collaborazioni in grado di integrare e contaminare le iniziative già proposte. In tal senso, riconfigurare le caratteristiche fisiche ed estetiche, le modalità di accesso e fruizione e le funzioni delle proprie sedi viene visto come uno strumento con cui essere maggiormente “capaci di comunicare un’immagine nuova, più aperta e più fruibile” (intervistato #8), ma sempre coerente con la propria identità e i propri valori.

Un altro motivo alla base di questa riconfigurazione delle sedi riguarda la sua complementarità con il più ampio processo di rafforzamento delle strutture organizzative che entrambe stanno portando avanti grazie alla partecipazione al bando Next Generation You. In tal senso, la volontà di rendere la riconfigurazione delle sedi “un processo condiviso e su cui tutti sono devono essere allineati” (intervistato #7) è stata formalizzata nei documenti interni come, ad esempio, il piano strategico di medio-lungo periodo (su base triennale) e quello di monitoraggio del raggiungimento degli obiettivi prefissati (trimestrali e annuali). In questo processo di allineamento interno non si sono riscontrate particolari criticità, in quanto in entrambe le organizzazioni è condivisa l’idea che la riconfigurazione delle sedi può favorire lo sviluppo di competenze interne di comunicazione, ascolto e collaborazione. Lo sviluppo di tali competenze è importante, in quanto può consentire a Fondazione Amendola e Panacea Social Farm di meglio comprendere le istanze locali e di farsi percepire come attori centrali per il territorio, poiché “un rapporto di fiducia si basa sulla capacità di comunicare e ascoltare [...] questo è fondamentale per avvicinare le persone e le comunità e rispondere ai loro bisogni” (intervistato #3).

Oltre ai motivi che hanno spinto le due organizzazioni ad avviare – e dare priorità – alla riconfigurazione delle proprie sedi in una logica collaborativa, le analisi hanno evidenziato tre pratiche messe in campo per gestire tale riconfigurazione: l’armonizzazione interna, la comunicazione dell’identità organizzativa e l’attivazione del territorio.

3.1. Armonizzazione interna

La pratica di armonizzazione interna comprende tutte le attività messe in campo per allineare i diversi membri dell’organizzazione rispetto agli obiettivi da raggiungere e per dare loro le competenze adeguate a gestire in modo efficace il processo di riconfigurazione degli spazi. Nello specifico, questa pratica comprende tre gruppi di attività: quelle di condivisione della cultura organizzativa, quelle di definizione di meccanismi di coordinamento interno e quelle di formazione del personale.

Il primo gruppo di attività riguarda la condivisione del progetto e della sua coerenza con la cultura organizzativa, cioè i valori, le norme sociali e i comportamenti che contraddistinguono l’organizzazione. Questa condivisione è importante per rendere maggiormente partecipi i diversi membri dell’organizzazione ed è confermata ad esempio da un intervistato di Panacea Social Farm che ha sottolineano l’importanza degli “incontri tematici tra gli addetti vendita, gli addetti al forno e all’area comunicazione per condividere il processo in atto e avere un maggior coinvolgimento” (intervistato #7).

Il secondo insieme di attività riguarda la necessità di definire meccanismi di coordinamento tali da assegnare in modo preciso mansioni, ruoli e responsabilità al personale coinvolto nella riconfigurazione degli spazi. Nel definire tali meccanismi, gli intervistati di entrambe le organizzazioni hanno posto particolare attenzione ad esplicitare gli obiettivi condivisi. Ad esempio, ciò è ben evidenziato dal fatto che Panacea Social Farm cerca “di sostenere la collaborazione continua tra i membri del team e di trovare continue sinergie tra le diverse linee di azione, anche predisponendo numerosi incontri di allineamento” (intervistato #7).

Il terzo gruppo di attività riguarda la predisposizione di percorsi di formazione mirati all’acquisizione da parte del personale delle competenze e del know-how necessari a supportare la riconfigurazione degli spazi tramite una logica collaborativa. Ad esempio, ciò sta avvenendo all’interno di Fondazione Amendola attraverso l’implementazione di “un piano annuale della formazione con percorsi specifici per aree tematiche come comunicazione, gestione della community e via dicendo” (intervistato #2). Queste attività permettono di rispondere alla necessità delle organizzazioni di sviluppare al proprio interno competenze che consentano al personale di agire sulle modalità in cui i diversi pubblici di riferimento percepiscono le sedi (ad esempio, progettando specifiche campagne di comunicazione) o di raccogliere e rispondere in modo più rapido ed efficace alle istanze espresse dai diversi pubblici (ad esempio, predisponendo appositi strumenti di raccolta e analisi dati).

Attraverso le attività di condivisione della cultura organizzativa, di definizione di meccanismi di coordinamento interno e di formazione del personale, la pratica di armonizzazione interna permette alle organizzazioni di supportare il processo di riconfigurazione degli spazi secondo una logica collaborativa. In tal senso, essa è importante per limitare l’insorgere di eventuali “tensioni” tra i diversi membri coinvolti.

3.2. Comunicazione dell’identità organizzativa

La pratica di comunicazione dell’identità organizzativa comprende tutte le attività attraverso cui la riconfigurazione degli spazi permette di veicolare, far conoscere e comprendere ai diversi interlocutori – interni ed esterni – l’insieme degli elementi che caratterizzano le organizzazioni del Terzo settore quali i loro valori, la loro mission, la loro cultura organizzativa e la loro storia. In particolare, questa pratica comprende due gruppi di attività: quello di valorizzazione delle caratteristiche della sede e quello di progettazione di iniziative coerenti con i tratti distintivi dell’organizzazione e del territorio.

Il primo insieme di attività riguarda la valorizzazione delle caratteristiche fisiche delle sedi finalizzate soprattutto a rendere la sede più accessibilità e fruibilità in termini ad esempio, di orari, servizi offerti, ma anche di piacevolezza dell’esperienza. Ad esempio, Fondazione Amendola, sta riconfigurando i propri spazi fisici con l’obiettivo di renderla un luogo più accogliente e accessibile a tutti: “la sede può fungere da centro culturale aperto 7 giorni su 7, con un orario di apertura ampio e adattabile in base alle necessità della comunità” (intervistato #1). Inoltre, gli spazi della sede della Fondazione possono essere pensati come spazi comuni per la socializzazione e la condivisione per “rendere le persone partecipi non solo di un’attività, ma anche della convivialità degli ambienti” (intervistato #2).

Il secondo insieme di attività riguarda, invece, la progettazione di iniziative coerenti con i tratti distintivi dell’organizzazione e del territorio di riferimento. La maggior parte degli intervistati descrive la ricerca di tale coerenza come un elemento fondamentale con cui caratterizzare le iniziative da proporre presso le proprie sedi, anche al fine di creare maggiore “assonanza” tra i propri valori e la propria identità e quanto espresso in termini valoriali e identitari dal territorio. Ciò può, infatti, permettere alle organizzazioni di essere più facilmente riconosciute e comprese dai diversi attori locali e, di conseguenza, di assumere maggiore centralità nel territorio. Ad esempio, un intervistato di Fondazione Amendola, nel descrivere un evento di presentazione di un libro per ragazzi e un concerto freestyle svolti in concomitanza nella sede della Fondazione, ha sottolineato la capacità di tale evento di essere “coinvolgente per il quartiere, poiché ha avuto la capacità al tempo stesso di trasmettere i valori della Fondazione e di intercettare ciò che piace ai ragazzi di Barriera Milano” (intervistato #3).

3.3. Attivazione del territorio

La pratica di attivazione del territorio comprende tutte le attività di gestione degli spazi fisici finalizzate a promuovere il coinvolgimento e la coesione della comunità locale e degli attori che appartengono al territorio in cui operano le organizzazioni. Nello specifico, questa pratica comprende due gruppi principali di attività: quello di utilizzo degli spazi come “laboratori aperti” e quello di sviluppo di relazioni di collaborazione con diversi attori del territorio per progettare iniziative congiunte da ospitare negli spazi.

Il primo insieme di attività riguarda l’utilizzo degli spazi come “laboratori aperti”, dove cioè sperimentare nuovi progetti, nuove idee e nuovi formati. Questa attività nasce dall’esigenza delle organizzazioni di rafforzare il ruolo di hub di comunità delle proprie sedi con l’obiettivo di renderle luoghi sempre più aperti, attivi e “contaminati” per i propri pubblici di riferimento. Entrambe le organizzazioni analizzate si stanno già muovendo in tal senso. Ad esempio, Panacea Social Farm ha sperimentato nell’ultimo anno diversi workshop di panificazione aperti al pubblico, ampliando così la fruizione degli spazi del forno di Via Baltea da semplice laboratorio di produzione e punto vendita a spazio dedicato anche a iniziative in grado di instaurare legami più continuativi con la comunità locale di Torino. Ciò può consentire a Panacea Social Farm di sviluppare un forte “senso di comunità” a livello locale attorno ai temi della panificazione: “abbiamo sperimentato dei corsi di panificazione [...] È stata un’esperienza positiva per i partecipanti. Questi sono come dei fili che si uniscono e che in un qualche modo ruotano intorno al fare il pane, perché poi molte persone tornano a comprare la farina o il pane. Si crea una sorta di comunità che ruota intorno a queste tematiche qui e che ha dei legami a volte più stretti, a volte più ampi” (intervistato #8).

Il secondo insieme di attività riguarda l’apertura degli spazi a iniziative organizzate da terzi che richiedono l’attivazione di una fitta rete di collaborazioni con attori del territorio (scuole, università, istituzioni locali, associazioni, istituzioni culturali, imprese, ecc.). Lo sviluppo di collaborazioni e partenariati è importante per accedere a competenze e risorse di cui entrambe le organizzazioni ad oggi non dispongono. Ad esempio, Fondazione Amendola ha recentemente inaugurato il progetto “Bibliobabel”. Tale progetto ha consentito alla Fondazione di trasformare la propria biblioteca in un vero e proprio luogo di aggregazione e dove, in collaborazione con le altre biblioteche cittadine che hanno messo a disposizione il proprio patrimonio librario e archivistico, viene dato spazio alle diverse comunità di origine straniera residenti nel quartiere di Barriera Milano. La collaborazione con gli attori che operano nel territorio ha permesso, inoltre, alle organizzazioni di ampliare gli utilizzatori delle proprie sedi. In tal senso, Fondazione Amendola sta facendo leva sui propri rapporti consolidati con gli istituti scolastici del territorio per aumentare la partecipazione dei più giovani alle proprie iniziative e ai propri servizi, come evidenziato dal direttore artistico della Fondazione: “Stiamo cercando coinvolgere sempre più i giovani attraverso i laboratori con le scuole, collaborando con il liceo scientifico Einstein e facendo leva sulla convenzione siglata con l’Istituto Ilaria Alpi” (intervistato #3).

4. Discussione e conclusioni

Il presente studio ha analizzato due casi di organizzazioni del Terzo settore che stanno riconfigurando i propri spazi fisici in una logica aperta e collaborativa. Nello specifico, l’analisi dei casi di Fondazione Amendola e Panacea Social Farm ha evidenziato tre pratiche con cui è possibile gestire questo processo di riconfigurazione: l’armonizzazione interna, la comunicazione dell’identità organizzativa e l’attivazione del territorio.

Tali pratiche possono essere disposte in sequenza (si veda Figura 1), con l’armonizzazione interna che emerge come necessaria per creare le condizioni abilitanti alla messa in campo delle due ulteriori pratiche. Infatti, il definire una visione condivisa su come riconfigurare gli spazi, i meccanismi di coordinamento da adottare e come sviluppare le competenze e il know-how dei membri dell’organizzazione è fondamentale per avere il supporto necessario per comunicare la propria identità organizzativa. Da questo punto di vista, sono fondamentali le attività di storytelling (come fatto, ad esempio, da Panacea Social Farm nel mostrare all’entrata dei propri punti vendita le storie delle persone che vi lavorano), l’estetica, gli artefatti o il design degli spazi (come fatto, ad esempio, da Fondazione Amendola nel definire un layout interno “modulare” che si adatti a più utilizzi) e le diverse iniziative erogate nei propri spazi per trasmettere un determinato sistema di valori o i propri tratti distintivi, favorendo così anche un maggiore coinvolgimento dei propri membri interni e della comunità locale. In tal senso, gli spazi del Terzo settore possono essere riconfigurati non solo per promuovere una logica inclusiva e collaborativa, ma anche per innescare un maggiore senso di appartenenza a livello locale, moltiplicando dunque il valore che tali spazi – e, di riflesso, le organizzazioni del Terzo settore – possono restituire al territorio (Busacca et al., 2022; Tricarico et al., 2022). Infine, la terza pratica di attivazione del territorio permette di riconfigurare spazi, servizi e attività in modo coerente e condiviso con gli attori del territorio. Ad esempio, configurando i propri spazi con un’ampia offerta di iniziative orientate a pubblici eterogenei (giovani, anziani, associazioni culturali, scuole, ecc.) e che possano essere erogate con modalità e tempistiche differenti (combinando, ad esempio, iniziative di breve durata con quelle più lunghe), le organizzazioni del Terzo settore possono contribuire a rigenerare il tessuto sociale in cui operano, soprattutto in quei territori (come, ad esempio, le aree urbane periferiche) che hanno una limitata offerta di infrastrutture, servizi o occasioni aggregative e di fruizione culturale (Avdikos e Papageorgiou, 2021; Ciccarelli et al., 2022). Inoltre, offrendo attrezzature, attività educative, workshop, seminari o eventi culturali, gli spazi del Terzo settore possono mobilitare e facilitare l’incontro tra persone e organizzazioni a vocazione sociale, le quali altrimenti faticherebbero a individuare momenti e luoghi in cui interagire e collaborare tra loro, supportando così la condivisione e lo sviluppo di progettualità ed esperienze condivise in grado di avere una ricaduta positiva sul territorio (Montanari, 2023).

 

Figura 1 – Pratiche (e relative attività) per gestire la riconfigurazione degli spazi del Terzo settore

Fonte: nostra elaborazione

 

L’implementazione delle pratiche sopra descritte può portare alla trasformazione della sede di un’organizzazione in un vero e proprio hub di comunità che possono diventare veri e propri “snodi” territoriali a elevata centralità in grado sia di rispondere ai diversi bisogni sociali espressi dal territorio sia di mettere a sistema le risorse (materiali, cognitive, relazionali, ecc.) possedute da diversi attori (Capdevila, 2015). Se è vero che la riconfigurazione degli spazi in hub di comunità può fornire importanti risposte alla necessità delle organizzazioni del Terzo settore di migliorare il proprio radicamento nel territorio di riferimento, è altrettanto vero che ciò comporta due principali aspetti critici che possono essere in parte gestiti attraverso le pratiche evidenziate nel presente studio. Un primo aspetto si lega al concetto di affordance degli spazi, cioè a come gli spazi fisici possano consentire di svolgere determinate iniziative e di coinvolgere determinati pubblici in modi differenti in base ai diversi modi in cui si può scegliere di configurarli e alle diverse aspettative di coloro che li utilizzano (si veda Bouncken e Aslam, 2023). Gli spazi, infatti, possono essere progettati per poter “ibridare” al proprio interno funzioni e attività formative o ludiche, individuali o collettive e temporanee o permanenti (Bouncken e Aslam, 2023; Howell, 2022), andando dunque incontro a più aspettative e intercettando e generando valore per più pubblici e in più modi allo stesso tempo.

Tale “ibridazione” rende ancora più importante l’implementazione da parte delle organizzazioni del Terzo settore di strumenti (e know-how) di raccolta e analisi dei feedback degli utenti per monitorarne bisogni e aspettative e per basare su tale monitoraggio eventuali modifiche alle caratteristiche degli spazi e alle iniziative che si intende ospitare al loro interno. In tal modo, le organizzazioni del Terzo settore possono far fronte anche a un secondo aspetto critico relativo alla riconfigurazione degli spazi tramite una logica collaborativa: il potenziale rischio di misfit, cioè la mancata corrispondenza tra i valori espressi dagli spazi riconfigurati e quelli ricercati da coloro che li utilizzano (si veda Canato et al., 2013). Il rischio di misfit si concretizza nel caso in cui le organizzazioni del Terzo settore si trasformino in “contenitori” di diverse iniziative, sviluppate anche in collaborazione con altri attori locali, ma non del tutto in linea con i target di utenti verso i quali tali iniziative sono orientate, limitando così la capacità delle organizzazioni di rispondere alle istanze locali e di radicarsi nel territorio. Per mitigare il rischio di misfit può essere necessario, da un lato, coinvolgere nei propri spazi utenti che siano coerenti con le caratteristiche identitarie dell’organizzazione e, dall’altro, cercare di convogliare in modo corretto le proprie caratteristiche identitarie tramite specifiche attività di comunicazione, come suggerito dai casi analizzati nel presente studio.

DOI:10.7425/IS.2024.02.10

 

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[1] Questo processo rientra nel progetto Next Generation You che è finanziato da Fondazione Compagnia di San Paolo ed è finalizzato al rafforzamento della sostenibilità delle organizzazioni del Terzo settore attive in Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta.

[2] “L’intitolazione a Giorgio Amendola – partigiano, liberatore d’Italia, Padre Costituente, intellettuale di spicco e dirigente del Partito Comunista Italiano – vuole riproporre nel contesto sociale e politico contemporaneo i valori e le linee guida del pensiero amendoliano, caratterizzate da sguardo prospettico sulle dinamiche contemporanee e da profondo desiderio di studio e approfondimento dei temi” (si veda www.fondazioneamendola.it).

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