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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2024

Saggi

Professioni sociali nel Terzo settore: una panoramica sul servizio sociale

Giovanni Cellini


Introduzione        

Questo contributo propone spunti di riflessione e di analisi sulla situazione nazionale del servizio sociale che opera nel Terzo settore, in particolare nelle cooperative sociali, cioè le organizzazioni in cui è occupata la maggioranza degli assistenti sociali impiegati nel settore medesimo. Il discorso si colloca nel quadro più ampio del ruolo delle professioni sociali, chiamate a fronteggiare significativi mutamenti nell’attuale fase storica, che riguardano il sistema di welfare nel suo complesso ed incidono sulle condizioni dei professionisti. Nell’ambito del dibattito sul Terzo settore, secondo alcuni autori caratterizzato da uno spazio discorsivo ristretto ed in parte carente di riflessioni esplicite sui problemi aperti (Busso e Gargiulo, 2016), pare importante non tralasciare aspetti critici, che possono riguardare il ruolo delle professioni sociali.

Nella prima parte dell’articolo si proporranno alcuni richiami alla letteratura in tema di professioni sociali nel Terzo settore e ci si soffermerà su alcuni dati emersi da studi sulla professione del servizio sociale. Successivamente si affronteranno tematiche connesse alla situazione attuale, con riferimento alle condizioni in cui si trovano i professionisti nel loro complesso e gli assistenti sociali in particolare. In un’ottica globale, ma che al tempo stesso consideri le specificità delle professioni di aiuto nel sistema di welfare (e nei mutamenti dello stesso), si porranno al centro dell’analisi alcune difficoltà che i professionisti sono chiamati fronteggiare, con l’obiettivo di rappresentarle e comprenderle. A tale analisi seguirà una parte di discussione e conclusioni, anche alla luce di processi di applicazione delle politiche in atto, in cui verranno messi in evidenza alcuni fattori di sfida per il servizio sociale. Si proporranno riflessioni, in particolare, sul tema dell’innovazione nella professione.

Un panorama da esplorare

Le professioni di aiuto si trovano a gestire costantemente situazioni critiche, che riguardano non solo le persone di cui si occupano, le organizzazioni in sono inseriti e le comunità nelle quali lavorano, ma anche le proprie condizioni lavorative e personali. Il mondo delle professioni sociali, in particolare, è caratterizzato da una grande complessità, in cui le situazioni possono essere molto diversificate, anche a seconda delle specificità della singola professione. Sono diffuse, al tempo stesso, percezioni che accomunano le professioni stesse, rese visibili soprattutto in spazi di dibattito che danno voce a chi opera sul campo, sia in studi a carattere accademico, sia in pubblicazioni “di settore”[1].

Sul tema della centralità delle professioni sociali nel sistema di welfare vi è da oltre un decennio un accentuato interesse (Facchini, 2010; Facchini e Ruggeri, 2012; Casadei, 2012; Tousijn e Dellavalle, 2017), rinnovatosi nel periodo recente (Busacca e Da Roit, 2021; Salmieri, 2022; Pasquinelli e Pozzoli, 2022). Più nello specifico, considerando le professioni sociali nel Terzo settore, si può affermare che esse costituiscono un’area per molti aspetti ancora da esplorare, anche alla luce dei mutamenti dell’offerta dei servizi di welfare (Natoli e Saltanicchia, 2019). Oltre alle professioni educative (Galeotti e Daddi, 2021), alla figura dello psicologo (Casteller, 2024) e ad altri operatori che a vario titolo vi lavorano, nel Terzo settore l’assistente sociale ha nel tempo acquisito e consolidato ruoli importanti e di responsabilità (Fazzi, 2013, 2016; Burgalassi e Tilli, 2023). Ed è proprio su tale professionista che ci soffermeremo in seguito.

Il panorama complessivo sulle professioni sociali nel Terzo settore appare come una realtà “in movimento”, caratterizzato da modifiche che avvengono sia attraverso spinte endogene, sia in seguito alle trasformazioni sociali della società contemporanea. In Italia in particolare il Terzo settore è caratterizzato storicamente “da una pluralità di organizzazioni, differenziate in ragione della loro strutturazione, delle loro finalità e delle loro attività” (Boccacin, 2007, p. 370). In tale pluralità, ormai da tempo, si è registrata una proliferazione delle professioni sociali; infatti, a professionisti più riconosciuti come lo psicologo, l’assistente sociale, l’educatore, o comunque già molto presenti, come l’OSS, si sono progressivamente aggiunte figure diverse ed emergenti, come, ad esempio, il mediatore interculturale e il manager del welfare (Grassia et al., 2008).

Secondo dati Inapp del 2018, le professioni sociali nel Terzo settore rappresentano il 37,9%[2] sul totale degli occupati nel settore stesso (Natoli e Saltanicchia, 2019). Questo dato generale va letto assieme ad altri, più specifici, che sono utili per definire le caratteristiche dei professionisti. In particolare, sebbene il Terzo settore comprenda l’assistente sociale come professionista di particolare rilievo nel lavoro di relazione con le persone, gli spazi per il servizio sociale professionale – e per le professioni sociali nel loro complesso - paiono sottodimensionati rispetto all’ampio e diversificato panorama di risorse umane impegnate nel settore (Ibidem). Inoltre, i dati rilevati da Inapp non evidenziano spazi significativi che consentano alle professioni sociali di ricoprire i profili apicali.

I dati disponibili in letteratura non hanno indicato nel tempo quantificazioni esatte sull'evoluzione della consistenza numerica degli assistenti sociali nel Terzo settore. Essi, tuttavia, indicano una chiara tendenza alla crescita. Partendo dal 1997, sulla base di ricerche realizzate in Italia negli ultimi due decenni, Burgalassi (2023) indica le seguenti percentuali (stimate) degli assistenti sociali impiegati nel Terzo settore, sul totale degli iscritti all’albo nazionale: 9,3% (1997), 11,9% (2008), 23,2% (2017). Il dato del 2020, che a differenza dei precedenti è ufficiale e fornito dall’Ordine nazionale degli assistenti sociali, si attesta al 22,1%. Fazzi (2016) aveva già messo in evidenza questa tendenza, citando il rapporto EISS (2001), che quantificava nel 15% gli assistenti sociali impiegati nel Terzo settore, e l’aumento della percentuale emerso da ricerche successive, che nel 2014 in alcune aree geografiche (regioni settentrionali) arrivava anche al 30%. Il panorama nazionale degli enti del Terzo settore è ampio e diversificato; tuttavia, come già ricordato in precedenza, la stragrande maggioranza degli assistenti sociali che vi operano lavora per cooperative e imprese sociali. Considerando il succitato database dell’Ordine nazionale, relativo al 2020, il 79,4% degli assistenti sociali nel Terzo settore è impiegato in cooperative/imprese sociali, il 14,4% in organizzazioni di volontariato, il 6,2% in fondazioni. Dati simili emergono dalla recente ricerca di Burgalassi e Tilli (2023), basata su un campione di oltre 3000 assistenti sociali su base nazionale: il 76,1% lavora in cooperative/imprese sociali, il 12,7% in organizzazioni di volontariato, il 5,1% in fondazioni[3].

Nell’esplorazione oggetto di questo articolo occorre, tuttavia, andare oltre una descrizione basata su dati numerici, per soffermarsi su aspetti di natura qualitativa, che aiutino a comprendere alcuni processi di mutamento e le attuali condizioni delle professioni sociali nel Terzo settore. Per proseguire il nostro discorso, pertanto, ci soffermeremo di seguito su alcuni tratti che caratterizzano le condizioni dei professionisti e degli assistenti sociali in particolare.

La condizione dei professionisti tra crisi e soddisfazione

Fattori di crisi che accomunano le professioni sociali

In generale, vi è un problema riconosciuto di carenza di professionisti nel Terzo settore, per motivazioni diverse, alcune peculiari del settore stesso, come ad esempio la limitatezza delle risorse economiche, che ha determinato in alcuni casi un investimento residuale sul personale e in particolare su professioni sociali qualificate. Nella fase storica attuale, a differenza di quanto avvenuto in passato, vi è una difficoltà da parte degli enti del welfare a reperire professionisti come assistenti sociali e educatori (Pasquinelli e Pozzoli, 2022). Occorre tuttavia considerare un più ampio e complesso scenario di condizioni, ad esempio quelle inerenti al difetto di riconoscimento del lavoro sociale come ambito caratterizzato da conoscenze e competenze tipiche; un difetto, questo, che rischia di generare una “dissolvenza” delle competenze specifiche di ciascuna professione (Dellavalle 2019) ed una costante intercambiabilità dei diversi professionisti. Tale scenario, “in cui i mansionari hanno sostituito i progetti di cambiamento sociale, si è rivelato (…) discutibile, avendo come esito (…) un lavoro sociale sterilizzato e anonimo” (Marocchi 2023), in cui un operatore “vale l’altro”, con un conseguente livellamento verso il basso dei riconoscimenti, anche di natura economica. In questo quadro si registra una frammentazione del lavoro, in cui il professionista viene “spalmato su più servizi anche differenti tra di loro, con il rischio di rimanere solo con competenze trasversali generiche creando una professionalità generalista che nel tempo si impoverisce” (Tabacchi 2023) o, peggio, alimentando la visione distorta secondo la quale tutti potenzialmente possono svolgere lavoro sociale, purché ci sia “buona volontà” o una sorta di predisposizione “naturale”.

Tra le condizioni sfavorevoli alle professioni sociali che operano nel Terzo settore, Natoli e Saltanicchia (2019) sottolineano in particolare lo sviluppo del ruolo del settore stesso come mero erogatore di servizi a titolarità pubblica, per conto delle amministrazioni. Si tratta di committenze, generate da forti esigenze di contenimento dei costi, derivanti dalla crisi economica e dalla conseguente implementazione delle politiche di austerity, caratterizzate da precarietà e instabilità per i professionisti, i quali “anche quando posti al centro di azioni necessarie all’implementazione di policy nazionali di primo piano, come quelle di contrasto alla povertà, non riescono a superare quella condizione di incertezza contrattuale e professionale che da sempre le costringe” (Ibidem).

Esiste dunque un problema di inquadramento professionale. Vanno ricordate, in proposito, le "basse retribuzioni delle professioni sociali: un assistente sociale con una decina d’anni di anzianità guadagna in media 28–30.000 euro lordi l’anno. Nel Regno Unito un senior social worker porta a casa fino a 47.000 sterline lorde (quasi 55.000 euro), mentre chi è alle prime armi parte con un salario medio di circa 30.000 sterline” (Pasquinelli e Pozzoli, 2022, p. 1). Dunque, negli anni si è registrata un’erosione del potere d’acquisto dei professionisti, anche a causa di una contrattazione collettiva carente. A ciò si collega “una politica di gare al ribasso che non ha fatto altro che svalutare il lavoro riducendo il personale al minimo necessario per svolgere quasi esclusivamente le incombenze burocratiche” (Tabacchi, 2023).

Uno dei possibili fattori di crisi dei professionisti sembra essere proprio l’aumento esponenziale di attività a carattere burocratico e di rendicontazione, in cui si riduce il tempo per le relazioni di aiuto e per le attività di pensiero. In questo quadro, si registrano tendenze di de-professionalizzazione (Cellini e Scavarda, 2019) nelle quali viene a crearsi un sistema di “servizi erogatori di prestazioni che difficilmente sono in grado di generare del nuovo o semplicemente di individuare bisogni e farsene carico. Tutto questo è avvenuto anche nel Terzo settore, in una situazione contraddittoria, che riguarda in modo particolare le cooperative sociali: se, da un lato, gli accreditamenti richiedono sempre di più esclusivamente figure qualificate, dall’altro gli stessi professionisti non vengono valorizzati per la loro specificità professionale e nemmeno dal punto di vista del riconoscimento di salari adeguati” (Tabacchi, 2023).

Queste dinamiche che abbiamo sintetizzato avvengono oggi in una ormai diffusa carenza di professionisti sociali nel sistema di welfare, non solo nel Terzo settore ma anche nel pubblico. Per quanto riguarda gli educatori, ad esempio, “le imprese sociali denunciano mancanza di personale educativo e difficoltà a trovare nuovi operatori, tanto che più di un ente pubblico si è trovato costretto ad accordare deroghe alle professionalità richieste dalle normative di accreditamento per la gestione di taluni servizi” (Marocchi, 2023). Rispetto alla figura dell’assistente sociale, la mancanza di personale è una questione di particolare attualità, soprattutto in alcune aree geografiche, sebbene la professione sia oggi caratterizzata da processi di crescita, determinati anche da politiche nazionali di potenziamento degli assistenti sociali, con un investimento particolare sulle risorse dei comuni[4]. Ebbene, nonostante tale investimento, “il bilancio complessivo a livello nazionale è di una ridotta efficacia nella correzione degli squilibri e di un impiego di risorse inferiore rispetto a quelle potenziali” (Pelliccia, 2024).

La soddisfazione degli assistenti sociali nel Terzo settore non nasconde alcuni nodi critici

Per comprendere la condizione dei professionisti è fondamentale interrogarsi a partire dalla loro soddisfazione lavorativa, un tema che appare complessivamente poco approfondito nel dibattito sulle professioni sociali. Ci concentriamo di seguito sulla figura dell’assistente sociale nel Terzo settore.

Considerando la soddisfazione lavorativa globale fra gli assistenti sociali occupati nel Terzo settore, gli studi mettono in luce livelli di soddisfazione significativi. È stata infatti rilevata la presenza di “un buon livello medio di soddisfazione” (Fazzi, 2015, p. 58), sostanzialmente confermata dalla recente ricerca di Burgalassi e Tilli (2023), da cui risulta che oltre l’80% degli assistenti sociali che lavorano nel Terzo settore si ritiene “abbastanza soddisfatto” o “molto soddisfatto” del proprio lavoro.

La valutazione della soddisfazione complessiva, tuttavia, deve necessariamente essere legata alla considerazione di fattori più specifici, che rivelano anche disagi e difficoltà.

Un primo fattore da considerare riguarda la diversa tipologia degli Enti del Terzo settore. Le cooperative sociali, cioè quelle - come già richiamato - in cui lavora la grande maggioranza degli assistenti sociali, risultano, rispetto agli altri enti del settore medesimo, l’ambiente lavorativo in cui gli assistenti sociali sono meno soddisfatti. Uno dei motivi di tale situazione è da ricondurre alla tipologia di inquadramento contrattuale: proprio nelle cooperative si concentrano maggiormente gli assunti a tempo determinato (ivi, p.82), in una condizione di precarietà lavorativa che di per sé può determinare minore soddisfazione. Una delle cause di tale condizione occupazionale deriva dal fatto che le organizzazioni di Terzo settore in generale, ma le cooperative in particolare, sembrano avere necessità “di scaricare sul personale le difficoltà derivanti da modalità di esternalizzazione segnate da compressione dei budget disponibili, richiesta di elevata elasticità organizzativa, incertezza sugli scenari di medio periodo” (Burgalassi e Bilotti, 84).

Occorre tuttavia evidenziare che la precarizzazione, uno dei caratteri delle forme contrattuali atipiche che interessano considerevolmente e ormai da tempo le cooperative sociali (Nappo, 2008), può derivare anche da situazioni in cui non vi è penuria di risorse economiche, bensì un maggiore investimento delle stesse. Come è stato osservato, infatti, col recente aumento delle risorse economiche basate su progetti nazionali ed europei, è aumentata anche per gli assistenti sociali l’offerta di lavoro con contratti lavorativi a termine e si è quindi delineata una diffusa tendenza alla precarizzazione (Pavani, 2021; Sicora e Rosina, 2019) che riguarda anche il Terzo settore.

Oltre agli aspetti di natura contrattuale occorre considerare la percezione soggettiva di condizioni di precarietà, che influenza la soddisfazione riguardo alle relazioni all’interno della organizzazione di appartenenza, sia quelle tra colleghi che quelle con i livelli apicali. Tensioni coi colleghi possono emergere, ad esempio, perché gli assistenti sociali precari possono essere esclusi da attività di formazione e supervisione riservati a personale a tempo indeterminato (attività considerate “a fondo perduto” se offerte ai precari). Appaiono dunque evidenti i rischi di una minore possibilità di interloquire e di “replicare”, soprattutto nell’ambito di processi decisionali che incidono in modo profondo sugli assetti organizzativi.

Il tema della precarietà è connesso strettamente a quello della mobilità. Questa caratterizza oggi in modo marcato le organizzazioni dei servizi e si riflette sulle condizioni dei professionisti. Come messo in evidenza da Pavani (2023), a seguito dell’impegno del CNOAS (Consiglio Nazionale Ordine Assistenti sociali), “con l’approvazione della Legge 178 del 20 dicembre 2020, sono stati introdotti finanziamenti strutturali per il potenziamento del servizio sociale professionale, aumentando così il numero di concorsi banditi per assistenti sociali in tutta Italia, ma creando anche una discreta mobilità. Per le organizzazioni di lavoro ha significato un susseguirsi di assistenti sociali che, da un lato, rincorrono il contratto con durata più lunga o in un’area di lavoro più affine e, dall’altro, ambiscono a stabilizzarsi” (Ibidem). In tale prospettiva, il lavoro nelle cooperative sociali può rappresentare, soprattutto per i più giovani, una fase di passaggio, in un percorso professionale che mira ad un posto di lavoro più stabile e “sicuro”, che dia maggiori garanzie e tutele.

Il tema della precarietà si collega a quello della vulnerabilità (Sanfelici, 2020) che incide sulla condizione personale del professionista. In particolare, “l’incertezza lavorativa degli assistenti sociali alimenta un processo di ridefinizione al ribasso dell’identità professionale che può (…) generare la singolare situazione per la quale coloro che dovrebbero sostenere il cambiamento e l’empowerment nelle persone fragili e in difficoltà sono in realtà egualmente vulnerabili e di fatto a loro volta bisognose di sostegno” (Burgalassi e Bilotti, p.97).

Riprendiamo di seguito alcuni degli aspetti fin qui affrontati, concentrandoci sul caso particolare degli assistenti sociali del Terzo settore occupati in condizioni di “doppia appartenenza” alle organizzazioni.

Assistenti sociali nel Terzo settore e il “caso” della doppia appartenenza

Un aspetto importante, che riguarda il servizio sociale operante nel Terzo settore, in particolare nelle cooperative sociali, è quello dei processi di esternalizzazione di funzioni svolte da professionisti che lavorano in enti pubblici, che tuttavia non sono dipendenti degli stessi ma assunti da cooperative. Riteniamo utile soffermarci su questa area, sia perché poco studiata, sia perché esemplificativa e rivelatrice di rilevanti fattori critici che intendiamo far emergere ulteriormente.

Come è stato efficacemente spiegato, l’esternalizzazione dei servizi sociali costantemente praticata dalla Pubblica Amministrazione consiste nell’ affidamento della produzione di servizi a uno o più soggetti esterni, mantenendo comunque la titolarità e il finanziamento della produzione stessa. Questo affidamento “si concretizza nella duplice forma del contracting out (affidamento diretto) o dell’accreditamento (affidamento indiretto) e riguarda l’intera organizzazione e produzione di un servizio. Negli ultimi anni, però, all’interno della cornice delle esternalizzazioni ha preso corpo una ulteriore modalità di affidamento nella quale l’ente pubblico chiede a quello no-profit non tanto di produrre per suo conto un servizio ma prevalentemente di fornire del personale da impiegare nei servizi che gestisce in proprio. In questo modo, l’ente pubblico si trova nella condizione di poter utilizzare professionisti che pur formalmente dipendenti della organizzazione di Terzo Settore risultano di fatto nella sua piena disponibilità” (Tilli, 2023, p. 116). Si tratta di meccanismi molto discutibili, sia dal punto di vista professionale, sia dal punto di vista della legalità normativo-contrattuale, sui quali occorre focalizzare l’attenzione.

Nei comuni o nei consorzi, ad esempio, accade che nei medesimi uffici lavorino sia assistenti sociali assunti dagli enti, sia professionisti assunti da cooperative, che svolgono compiti simili e che sono coordinati dalla stessa figura manageriale. Tali processi, dettati fondamentalmente da logiche di risparmio, hanno portato a situazioni in cui disagio e disparità sono interconnessi. Il professionista viene infatti a trovarsi in una posizione “ibrida”, collocato all’interno di un’organizzazione ma con un datore di lavoro esterno. In tale condizione, il rischio di non sentirsi parte di un’organizzazione è molto elevato. Al tempo stesso vi sono pesanti disparità, derivanti da un diverso trattamento economico, da diverse tutele dei diritti del lavoratore, da una posizione contrattuale spesso precaria (Fazzi, 2016, p. 59), dagli svantaggi nella fruizione di attività di formazione e supervisione che abbiamo già evidenziato in precedenza.

“Oltre a segnalarsi controversa dal punto di vista giuridico (in quanto assai vicina ad una subfornitura di personale), una soluzione del genere comporta condizioni lavorative assai particolari per gli assistenti sociali che vi sono coinvolti chi sperimenta situazioni di quel tipo sconta un posizionamento (…) di doppia appartenenza, che può paradossalmente ribaltarsi in un senso di non appartenenza” (Tilli, 2023, 116). Le conseguenze di tali condizioni possono ripercuotersi sul lavoro dell’assistente sociale e sulla percezione del sé professionale. “Il rischio più importante che sembra potersi ravvisare è quello di contribuire a costruire una identità professionale debole e sostanzialmente solitaria, poiché sentita come ‘altro da noi’ sia da chi opera nel Terzo settore sia dai colleghi della Pubblica Amministrazione. Certamente su questo ultimo aspetto molto dipende dal clima organizzativo” (ibidem).

Occorre tuttavia sottolineare una differenza fondamentale, ben illustrata da Tilli (Ibidem), tra gli assistenti sociali nella condizione di doppia appartenenza: tra quelli che si trovano nelle condizioni fin qui evidenziate, cioè impegnati in servizi affidati di fatto in subfornitura, sotto il diretto controllo degli enti pubblici pur essendo contrattualmente legati ad un ente di Terzo settore, e quelli che invece sono occupati mediante forme di esternalizzazione “standard” previste dalla normativa; nello specifico, negli ambiti più praticati attraverso il modello standard esternalizzazione vi sono una serie di servizi più complessi (di tipo domiciliare, semiresidenziale e residenziale) nei quali gli enti di Terzo storicamente sono stati ingaggiati. Gli assistenti sociali messi a disposizione degli enti pubblici (subfornitura) operano spesso nelle attività di front-office in cui non è necessario un particolare background sull’assetto e il funzionamento della struttura organizzativa e servono verosimilmente per colmare le lacune di organico spesso presenti all’interno della Pubblica Amministrazione; sono soprattutto questi professionisti collocati in una posizione ambigua, di solito anagraficamente e professionalmente giovani, ad essere molto preoccupati che la propria precarietà impatti negativamente sulla qualità delle relazioni con le persone utenti e sulla possibilità di portare a termine i percorsi di aiuto, ad essere poco coinvolti nelle scelte politico-gestionali che riguardano il loro ente di appartenenza, ad avere poche opportunità di crescita professionale, ad avere maggiormente un vissuto di insoddisfazione per la retribuzione e per la precarietà, ad essere a rischio di vulnerabilità. Diversa invece è la condizione gli assistenti sociali del no-profit coinvolti nei processi di esternalizzazione standard, i quali, rispetto agli assistenti sociali in subfornitura, si sentono più soddisfatti sul fronte delle relazioni con i colleghi e con i responsabili dei servizi, più tutelati dall’ente del Terzo settore in cui sono occupati, meno precari, meno insoddisfatti riguardo alla retribuzione (Ibidem).

Il caso degli assistenti sociali con la doppia appartenenza mette in luce, dunque, differenze significative e richiama l’attenzione a non generalizzare le analisi dei fattori di crisi e le rappresentazioni delle condizioni dei professionisti. Da questa considerazione vogliamo partire per proporre una sintetica discussione di quanto finora esposto e alcune riflessioni conclusive.

Discussione e conclusioni

L’esternalizzazione impropria di assistenti sociali nelle cooperative sociali è un tema che in Italia è stato affrontato in alcune attività di ricerca, anche in forma di collaborazione internazionale, che si sono concentrate in modo particolare sull’innovazione nel servizio sociale e sui bisogni formativi dei futuri assistenti sociali (Ramos-Feijóo et al., 2020; Cellini e Dellavalle, 2022). Da queste ricerche, che attraverso metodi qualitativi si sono concentrate sulle rappresentazioni di assistenti sociali in posizione di “testimoni privilegiati” per la loro conoscenza ed esperienza lavorativa, sono emerse prospettive di cambiamento. Una delle professioniste intervistate, in possesso di esperienza in ruoli di responsabilità e dunque tenuta ad occuparsi dell’inserimento nel contesto lavorativo di assistenti sociali neoassunte, riporta un esempio della fatica nella gestione delle esternalizzazioni improprie: “le seguo, le preparo le faccio crescere e sono di una cooperativa poi un'altra cooperativa…sono stufa”. Al tempo stesso però vi sono professioniste con ruoli manageriali che indicano segnali di cambiamento: “purtroppo la mia area è gestita in prevalenza da personale le cooperative quindi per questo c'è un grandissimo turnover…adesso per fortuna l’ente ha realizzato che questo non funziona”.

L’auspicio è dunque quello del superamento della subfornitura derivante dall’esternalizzazione impropria e delle conseguenze negative che si sono evidenziate, non tralasciando l’approfondimento delle irregolarità dal punto di vista legale. Il LEP ricordato in precedenza, che prevede per gli ATS il requisito minimo di un assistente sociale ogni 5000 abitanti, con assunzione diretta da parte degli enti territoriali, dovrebbe favorire tale superamento, dando agli assistenti sociali prospettive di stabilizzazione nel settore pubblico e, al tempo stesso, togliendo dal mercato del lavoro posizioni lavorative instabili, che rischiano di offuscare e snaturare il ruolo degli assistenti sociali nel Terzo settore. Tale inversione di tendenza sarebbe in linea con quanto emerso dalle ricerche succitate, da cui emerge che gli assistenti sociali nel Terzo settore possono avere prospettive professionali tutt’altro che precarie e povere di opportunità, in un ambito in cui - come si è visto - vi è una diffusa soddisfazione dei professionisti. In proposito, questa rappresentazione di un’assistente sociale con esperienza nel no-profit è emblematica: “nel Terzo settore io vedo realtà estremamente stabili che sostanzialmente hanno una struttura aziendale; quindi altro che precariato, vedo delle organizzazioni estremamente strutturate che garantiscono ai lavoratori formazione, possibilità di far carriera e costruire competenza quindi e un altro mito da sfatare è che il pubblico ti dia certezza e che invece è il privato voglia dire precariato”. Dunque, è la scelta dell’assistente sociale di lavorare nel Terzo settore può essere effettivamente “tutt’altro che un ripiego” (Fazzi, 2016).

Pensando soprattutto agli assistenti sociali più giovani ed anche agli studenti che prefigurano l’ingresso nella professione, occorre tenere presente l’importanza di una visione “ideale” del lavoro nel Terzo settore, che possa essere occasione di realizzazione e crescita professionale. Al tempo stesso va sottolineata l’esigenza, più che condivisibile e necessaria per i progetti di vita sia professionali che personali, di garanzie e sicurezza dal punto di vista lavorativo.

Pare fondamentale, contestualmente, porre attenzione a non enfatizzare una rappresentazione che rischia di trasformarsi in uno stereotipo, cioè quello dell’assistente sociale del settore pubblico chiuso nel proprio ufficio, meno dinamico, meno attento alla comunità ed alle innovazioni. Se ci sono chiaramente rischi di burocratizzazione e di de-professionalizzazione (Tousijn e Dellavalle, 2017) di un lavoro spesso troppo concentrato sulla dimensione del servizio sociale individuale poco attento alla dimensione territoriale / comunitaria, è anche da sottolineare che nel settore pubblico vi sono molte realtà “virtuose”, gestite attraverso solidi legami con le comunità ed attente all’innovazione nei servizi, anche quelle più recenti, legate ad esempio alla digitalizzazione. Spiccano, inoltre, esperienze proficue di partnership pubblico-privato sociale; collaborazioni innovative, queste, al di fuori della logica secondo cui il lavoro col Terzo settore è esclusivamente strumentale all’ottenimento di prestazioni utili per i beneficiari. Dunque, sono visibili esperienze di innovazione promossi dal settore pubblico (Mermoz, 2019), che hanno trovato spazio nei servizi, ad esempio, nelle situazioni di “spiazzamento” determinate dalla pandemia (Gui, 2020). Ed è proprio sul tema dell’innovazione che proponiamo alcune riflessioni conclusive sulle tematiche trattate in questo articolo.

Le aree di innovazione possono riguardare diversi ambiti operativi e il Terzo settore può offrire al servizio sociale nuove opportunità di esprimere le proprie potenzialità innovative e di imprenditorialità sociale. Come evidenzia una delle intervistate nelle ricerche citate all’inizio di questo paragrafo, “c'è un fermento significativo nelle cooperative sociali, che lavorano alacremente per progetti innovativi (…)”. L’innovazione e l’imprenditorialità sono valori da promuovere, ma che richiedono anche un investimento sulla formazione dei futuri assistenti sociali, ad esempio con tirocini sperimentali, che nel Terzo settore, ambito capace di offrire al servizio sociale nuovi spazi per esprimersi come professione, possono trovare spazi importanti (Dellavalle e Rocca, 2017). Più in generale, “servono percorsi, oggi spesso assenti, che aumentino le competenze di progettazione rispetto ai servizi innovativi, fondamentali per affrontare il cambiamento e le nuove esigenze che la società attuale porta con sé” (Fazzi e Marocchi, 2016a, p.80). Occorre poi investire sulla formazione continua, che è una delle attribuzioni dell’Ordine degli assistenti sociali e può aiutare a qualificare tutti i professionisti attraverso nuovi percorsi specificatamente dedicati al Terzo settore (Ibidem). Come è stato evidenziato “la formazione costa, richiede impegno e sacrificio, che hanno senso nel momento in cui l’assistente sociale è valorizzato appunto come soggetto importante nella definizione di strategie di sviluppo e innovazione a partire dalla sua capacità di leggere professionalmente il territorio e i suoi bisogni” (Fazzi e Marocchi, 2016b, p.92).

In una visione complessiva, l’imprenditorialità comporta il potenziamento del confronto tra soggetti diversi, che è possibile esprimere in particolare nel lavoro di partnership pubblico-privato e nel lavoro di comunità. Sebbene nella realtà italiana le attività a carattere innovativo-imprenditoriale delle professioni sociali siano da rendere maggiormente visibili, il Terzo settore può essere un ambito in cui promuovere le attività stesse, oltretutto in una fase storica in cui nuove risorse economiche, in particolare quelle del PNRR, rappresentano una grande opportunità.

DOI:10.7425/IS.2024.02.08

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[1] Si richiamano in proposito, a titolo di esempio, le riviste open access welforum.it, Osservatorio nazionale sulle politiche sociali e Percorsi di Secondo Welfare, rivolte ad un pubblico variegato di professionisti, operatori, esperti del sistema di welfare, studenti.

[2] I dati Inapp (Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche) suddividono le percentuali le professioni sociali come segue: il 62% sono “OSS e Addetti all’assistenza” (livello base); il 29,9%, assistenti sociali, educatori, “tecnici del reinserimento e dell’integrazione sociale” (livello intermedio); l’8,1% psicologi, sociologi e assistenti sociali specialisti (livelli apicali).

[3] Rispetto all’incremento occupazionale di assistenti sociali nelle cooperative sociali è interessante notare che, secondo quanto rilevato nella ricerca curata da Facchini (2010), esso non è avvenuto tanto attraverso la cooptazione di nuovi soci, ma tramite assunzioni come dipendenti, per lo più a tempo determinato.

[4] Ricordiamo in proposito che con la legge di bilancio per il 2021 il legislatore ha individuato come LEP, cioè come soglia minima da garantire in tutto il Paese, l’obiettivo del rapporto assistenti sociali/abitanti pari a 1:5000.

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