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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2024

Intervista

Il lavoro sociale, tra crisi e rilancio

Redazione, Marco Gargiulo, Massimo Ruggeri, Eleonora Vanni


Il tema del lavoro sociale è in questi mesi al centro di numerose riflessioni: il lavoro sociale come risorsa e punto di forza delle imprese sociali, il lavoro sociale in crisi perché nessuno vuole più farlo, il lavoro sociale tra professionalità e istanze di cambiamento, il lavoro sociale tra vecchie e nuove generazioni, solo per accennare alcuni temi. E poi, il lavoro sociale recentemente investito da un rinnovo contrattuale su cui si raccolgono commenti contrastanti.

Impresa Sociale ne ha parlato con Eleonora Vanni, presidente nazionale di Legacoopsociali, Marco Gargiulo, presidente del Consorzio Nazionale Idee in Rete e Massimo Ruggeri, membro dell’esecutivo nazionale del CNCA e tra gli estensori, alcuni mesi fa, del documento La dignità del lavoro sociale.


Impresa Sociale: Le persone sono centrali per un’impresa sociale. Quali sono i punti di forza e di criticità della forza lavoro nelle imprese sociali oggi?

Gargiulo. Le persone sono sempre state al centro dell’interesse delle imprese sociali; in particolare la storia della cooperazione sociale italiana è una storia che si innesta perfettamente nel lungo cammino dell’inclusione del nostro Paese. Il punto di forza si basa sulla capacità di costruire legami fondati sulla forza della relazione: le cooperative sociali, tanto le A quanto le B, utilizzano da sempre la capacità di costruire relazioni di fiducia - che caratterizza chi lavora in cooperativa - come uno strumento operativo di lavoro; se non vi fosse la capacità di costruire una relazione positiva i percorsi non avrebbero successo. È, inoltre, anche l’elemento principale che ci tiene radicati nel territorio dove operiamo. L’altro lato della medaglia è che questo lavoro di relazione, ad “alta intensità umana e relazionale” e ad alto impatto sociale, viene considerato – erroneamente – un lavoro a “bassa produttività” che comporta costi significativi. Questa scarsa valorizzazione del lavoro sociale, a differenza di quanto avviene per i lavori ad alta produttività (come quelli che fanno ampio uso di tecnologie), ha determinato il disallineamento che molti operatori – soprattutto i giovani – riscontrano tra la bellezza di questo lavoro e la sua valorizzazione economica, sociale e politica. Il lavoro di relazione non ha un risultato produttivo immediato (la nostra società frenetica mal sopporta azioni che richiedono tempi lunghi), non si produce un oggetto fisico immediatamente spendibile sul mercato ed è veramente impegnativo farne percepire il valore e quindi avere riconoscimento sociale ed economico. Siamo disposti a pagare per un oggetto, ma ci sembra strano spendere risorse per stare accanto ad un bambino od un anziano. Ancora oggi, nonostante i grandi passi in avanti che oggettivamente sono stati fatti, capita che interlocutori istituzionali qualifichino i nostri operatori e lavoratori come “volontari”. In una situazione di delegittimazione come questa il rischio di burnout è più alto che in passato, tra poca considerazione sociale, pesantezza del lavoro, scarso riconoscimento sociale ed economico. Un operatore sociale può avere serie difficoltà a rispondere ai propri bisogni fondamentali e potremo avere una relazione di aiuto efficace solo se avremo operatori sociali sereni e felici.

Vanni. Direi, soprattutto parlando da cooperatrice, che le persone sono il riferimento fondante dell’impresa sociale cooperativa; il ruolo dei soci lavoratori va oltre l’apporto professionale: va nella direzione della partecipazione alla governance cooperativa in relazione all’essere proprietari dell’impresa stessa e dello scambio mutualistico su cui si fonda la cooperazione. Inoltre, tutte le imprese sociali svolgono attività di interesse generale dove la relazione e l’apporto personale costituisce, nella maggior parte dei casi, l’hardware dell’attività stessa, in particolare modo in tutto l’ambito dei servizi educativi e di cura e per l’inclusione lavorativa delle persone svantaggiate. In relazione a questo ultimo tema, per le cooperative non si tratta solo di “inserire” al lavoro persone in situazione di svantaggio, ma di operare un accompagnamento che va dalla socializzazione iniziale al lavoro e alla formazione e/o aggiornamento, al mantenimento delle migliori condizioni per la permanenza nel contesto lavorativo.

Ruggeri. La definizione “forza lavoro” rimanda all’energia necessaria per svolgere una mansione; in ambito sociale e sanitario pensare alle persone come forza lavoro è riduttivo e forse anche sbagliato. Diciamo che le persone sono essenziali per la società, e quindi anche per le nostre organizzazioni! La società esiste perché siamo per natura esseri relazionali. Non esiste “io” senza un “tu”: è la relazione che definisce l’identità dell’individuo. E questa relazione va abitata e curata, sia nella società, sia nelle imprese sociali. Le cooperative, ad esempio, hanno una dimensione plurale, sono sempre un “noi”: vivono della relazione e dello scambio tra soci. Se non è così, non possono dirsi cooperative. I processi orizzontali (naturale conseguenza del “noi”) favoriscono l’innovazione e sono più generativi di quelli gerarchici. Spesso, rallentare i processi decisionali per favorire lo scambio e il confronto, significa assumere decisioni più efficaci. Ma prendersi cura richiede competenza, tempo e fatica. Tanto che non poche imprese sociali hanno scelto una strada più “semplice” e si sono strutturate secondo più classici modelli aziendali verticistici. Oggi abbiamo tendenzialmente operatori più formati di un tempo, e questo è sicuramente un punto di forza. Al tempo stesso però sono sempre più evidenti criticità “di sistema” strettamente connesse con la deriva individualista che stiamo vivendo. In questo scenario, il lavoro sociale - da sempre poco riconosciuto - registra una distanza non più sostenibile tra competenze, carichi di lavoro e tempo dedicato da un lato e riconoscimento sociale ed economico dall’altro.


Impresa Sociale: Tra i giovani lavoratori e quelli già presenti da anni ci sono differenze significative nelle motivazioni, nell'ingaggio e nelle aspettative? Come vengono gestite queste differenze?

Vanni. Ci sono differenze significative su due fronti: uno riguarda le motivazioni del lavoro in cooperativa o nell’impresa sociale, che sono meno legate ad origini culturali, politiche, religiose di appartenenza e più orientate a un laico impegno civico sul presente e per il futuro collegato alla qualità della vita dal punto di vista sociale, ambientale ed economico. L’altro, l’approccio al lavoro, profondamente cambiato nella società attuale e correlato all’equilibrio fra la realizzazione delle proprie aspirazioni professionali e la qualità della vita; tenendo presente che nel lavoro di cura, ad esempio, c’è anche un forte impatto emotivo non sempre controbilanciato dalla qualità del lavoro che si svolge anche nelle migliori condizioni possibili. Questi temi creano qualche incomprensione, soprattutto con lavoratori di lungo corso che hanno fatto del lavoro anche una scelta di vita. Aprire spazi e opportunità di confronto e di espressione della creatività dei giovani in compresenza e a confronto con le esperienze dei lavoratori più anziani contribuisce fortemente al rinnovamento complessivo anche delle strategie delle imprese sociali. Vanno poi sollecitati e accompagnati percorsi di creazione di nuova impresa in ambiti dell’innovazione dove, come è accaduto per chi ha costituito, a suo tempo le cooperative, ci si possa sentire artefici del proprio destino lavorativo e lo si possa orientare secondo le aspirazioni di chi partecipa al progetto imprenditoriale.

Ruggeri. Come spesso capita, i giovani stanno nel presente con una postura innovativa e sono più capaci di mettere in evidenza le incongruenze e le storture della realtà. Non condividiamo la lettura che vede nei giovani dei soggetti senza motivazioni. Non pensiamo nemmeno che il problema sia da ridurre ad una questione generazionale. Certo, delle differenze ci sono: chi è entrato a far parte di una organizzazione sociale venti o trent’anni fa, spesso si è trovato in un ambiente molto poco organizzato, in cui la spinta valoriale era preminente rispetto ai processi lavorativi, ed ha contribuito in prima persona a plasmare quell’organizzazione. Oggi le realtà sono spesso già molto strutturate e sono quindi ridotti gli spazi per dare un senso politico all’agire nel sociale. La logica prestazionale ha inoltre preso piede anche in ambito sociale e sanitario: molto più di un tempo siamo pagati in funzione delle prestazioni che eroghiamo, e siccome il nostro lavoro è utile nella misura in cui riesce a dare senso alle storie di vita delle persone e delle comunità, viviamo un continuo sfasamento tra ciò che ci è chiesto e ciò che servirebbe. C’è poi la questione economica, tutt’altro che secondaria. Il lavoro sociale non è mai stato un lavoro che permetteva di arricchirsi, ma oggi per moltissime persone è un lavoro che condanna alla povertà. Non è una differenza irrilevante. Inoltre, il lavoro ha sconfinato invadendo tempi e luoghi che erano considerati privati. Di fronte a queste condizioni, aumenta esponenzialmente il numero di coloro che scelgono di cambiare vita o che si chiedono “per quanto ancora potrò reggere”.

Gargiulo. Sicuramente si avverte un diverso stile di vita, connesso con i cambiamenti economici e sociali. I “fondatori” accettavano anche un compromesso – che, visto oggi, si è dimostrato negativo, complice del mancato riconoscimento del lavoro sociale – tra il minore guadagno e la possibilità di svolgere un lavoro molto aderente alle proprie aspettative valoriali. Sarebbe però scorretto affermare che i giovani non abbiano valori, motivazioni o desiderio di cambiamento: quelli sono gli stessi, ma i lavoratori più giovani non sono disposti ad accettare questo compromesso, consapevoli che alla lunga logora, non consente di stare bene. Sanno che la vita non può essere dedicata al lavoro sacrificando le aspettative di una serenità economica; questo è un elemento che rischia di tenere i giovani lontani dalle nostre cooperative e che porta migliori giovani cooperatori a considerare di lasciare la cooperativa per altri ambienti di lavoro più gratificanti da un punto di vista economico e con un’organizzazione del lavoro meno stressante. Bisogna avere forza e coraggio di investire su queste persone, di smetterla di considerarle inadeguate o prive di visione politica, bisogna avere l’umiltà di riconoscere il loro bagaglio valoriale, considerando legittima l’aspettativa di realizzarlo in un’organizzazione in grado di tutelarli. I giovani non hanno fiducia in chi si è riempito la bocca di valori e poi non riesce a tutelarli.


Impresa Sociale: In specifico, molte imprese sociali lamentano la difficoltà di reperire operatori e, una volta reperiti, a mantenerli; secondo te si tratta di una situazione effettiva e reale? E, nel caso, a cosa è dovuta? Ci sono soluzioni organizzative e di governance che potrebbero essere introdotte per migliorare la situazione?

Ruggeri. Che il turnover sia aumentato è un dato di fatto. Si tratta di una dinamica molto più ampia, che riguarda anche settori for profit. Negli ultimi anni abbiamo avuto diverse occasioni per chiederci se la vita che stiamo vivendo è quella che vogliamo vivere e per molti la risposta è stata negativa. Come ogni altro lavoro, anche il lavoro sociale deve fare i conti con i bisogni di chi lavora. Il senso etico di un’impresa altruistica, che è ancora molto presente nei lavori di cura, o è assunto come paradigma da un contesto culturale che riconosce il valore collettivo del lavoro sociale, oppure finisce per scaricare sui lavoratori il peso della sostenibilità. Nel lavoro sociale è più evidente la necessità di far convivere bisogni, significati e aspirazioni. Se i bisogni nascono dall’esperienza di cosa manca e i significati guardano a cosa ciascuna persona dà valore in questo momento, costruire aspirazioni è una caratteristica della capacità culturale, il modo in cui le persone impegnano il proprio futuro. C’è una domanda inespressa che riguarda quale società vogliamo abitare e contribuire a costruire. E non possiamo farci carico da soli di trovare una risposta. Quali modelli organizzativi vogliamo costruire? Quali percorsi di ascolto, partecipazione e costruzione collettiva vogliamo mettere in atto? Quanto interessa lo sguardo, il pensiero dell’ultimo collega assunto? Le organizzazioni si devono chiedere se hanno voglia di farsi attraversare da visioni e posture divergenti, se sono disponibili ad uscire da un’autoreferenzialità di cui spesso sono intrise. Siamo disposti ad accettare questa postura trasversale, a tenere assieme una poliedricità di sguardi?

Vanni. La difficoltà a reperire operatori non solo è presente, ma sta creando, soprattutto per alcuni profili (infermieri, educatori) e in alcune aree territoriali, difficoltà importanti nella gestione dei servizi per mantenere le unità di personale previsti dagli accreditamenti, dai regolamenti e dagli accordi contrattuali. La causa non è rilevabile in una singola motivazione, ma in un insieme di fattori che interagiscono tra loro, alcuni di carattere più generale e altri specificamente legati alla tipologia dei soggetti gestori. Si rileva in generale una minore propensione, già nella richiesta formativa, alle professioni di cura, che va anche aldilà del numero chiuso di alcune facoltà; questo si combina con un diverso approccio al lavoro maturato negli ultimi anni, ma ha anche a che fare con il fatto che queste professioni non hanno un adeguato livello di riconoscimento sociale ed economico. Al nostro interno abbiamo operato una lunga e partecipata riflessione sul tema lavoro sociale in cooperativa, attrattività e valorizzazione. Abbiamo sottoscritto un impegnativo rinnovo contrattuale per la valorizzazione economica - e questo impegna fortemente la cooperazione sociale -, ma è il nostro paese che ha un problema di fondo rispetto agli stipendi di un’ampia area di professionisti che operano nelle attività di cura. Serve però anche un approccio nuovo al lavoro che tenga presente una evoluzione dei bisogni di vita delle persone e i modelli organizzativi aziendali e del lavoro.

Gargiulo. Il problema esiste e richiede di agire su diversi fronti per motivare e formare le giovani generazioni allo stile e alla vita cooperativa. Oggi spesso tu entri in cooperativa e percepisci l’assenza di prospettive di crescita professionale, ti accorgi di essere in un’organizzazione in cui entri come educatore ed esci come educatore, al massimo diventerai coordinatore del servizio o di area o ti sposterai da un servizio ad un altro. Pensare che per i prossimi 30 anni di lavoro cambierà poco o nulla, che non ci sono prospettive di carriera, è un elemento di grande demotivazione; e come dargli torto? D’altra parte, anche la prospettiva dell’assunzione di un ruolo di responsabilità nella guida della cooperativa – l’ingresso in CdA, che tradizionalmente rappresenta un tipico percorso di riconoscimento di ruolo - si rivela per il giovane lavoratore un’arma a doppio taglio: gratifica, ma comporta consistenti impegni e responsabilità a fronte di nessun incentivo economico. Penso che le cooperative dovrebbero darsi strumenti di governance partecipata che facciano sentire le persone parte di un progetto imprenditoriale, con la prospettiva di essere protagonisti nell’aprire nuovi fronti, nuove attività. È un tema ineludibile se non vogliamo essere solo fornitori di manodopera a basso costo.


Impresa Sociale: Si è recentemente chiuso l’accordo tra Centrali cooperative e organizzazioni sindacali per il rinnovo del contratto di lavoro delle cooperative sociali. Qual è la tua valutazione su tale accordo, sia dal punto di vista della sostenibilità, sia della possibilità che esso possa contribuire ad aumentare la fidelizzazione e la motivazione dei lavoratori?

Gargiulo. La valutazione è nel complesso positiva. La situazione preesistente era caratterizzata da livelli di retribuzione non sostenibili per i lavoratori, di poco superiori ad un sussidio di cittadinanza. L’adeguamento, che a metà 2025 produrrà un aumento complessivo intorno al 15%, mi sembra uno sforzo importante e positivo. Anche i sindacati si sono dimostrati maturi nella mediazione con le rappresentanze cooperative. Restano alcune aree di miglioramento su cui lavorare in vista della prossima scadenza contrattuale – che andrà rispettata! – relativamente ad alcuni istituti contrattuali, dalle notti passive alla quattordicesima. Penso invece che siano indifendibili e strumentali le polemiche sollevate da alcune cooperative che hanno accolto il rinnovo contrattuale paventando il rischio della insostenibilità e della chiusura. Al contrario, le cooperative virtuose avevano iniziato da tempo a programmare l’aumento del CCNL, ben sapendo che i rinnovi contrattuali esistono e vanno onorati. Ora è necessario aprire gli Osservatori regionali, che consentiranno di monitorare le situazioni in cui il contratto non è rispettato e in cui gli enti pubblici non riconoscono gli adeguamenti tariffari. È a questo proposito positivo che si siano avviati tavoli con le organizzazioni degli enti pubblici e in particolare con ANCI. Mi preoccupa invece come alcune amministrazioni stanno gestendo strumentalmente i procedimenti di amministrazione condivisa per risparmiare sul costo dei servizi imponendo il cofinanziamento. Sappiamo che questo adeguamento non cambierà la vita dei lavoratori, che i nostri soci meritano retribuzioni più alte, anche di quelle che percepiranno dopo il rinnovo; ma il contratto va riconosciuto come passo in avanti. La retribuzione contribuisce alla serenità e alla soddisfazione di una persona, è parte dell’equilibrio della persona e della sua famiglia: se vogliamo operatori fidelizzati non possiamo considerare l’elemento retributivo di secondo piano. Elemento valoriale e retribuzione economica vanno insieme, le cooperative devono cambiare la società, ma anche far vivere bene chi vi lavora. In ultimo vorrei richiamare il tema dell’agibilità del contratto delle cooperative sociali per le B, che va sviluppato a partire dalla descrizione dei contenuti professionali di ciascuna mansione. Le cooperative B devono competere con imprese che applicano contratti diversi, i lavoratori tenderanno a considerarsi svantaggiati rispetto ai colleghi di altre imprese, con conseguente disaffezione verso la cooperativa e verso il nostro settore in generale.

Vanni. Si tratta del più importante rinnovo contrattuale nella storia del CCNL delle cooperative sociali per l’aspetto economico, ma si qualifica anche per elementi normativi che riguardano specificamente alcune situazioni che sino ad oggi hanno costituito un elemento penalizzate (vedi ad esempio la copertura al 100% della maternità in un settore dove la presenza di lavoratrici è oltre il 70%). La soddisfazione per questi passi avanti si scontra però con il problema della sostenibilità per le imprese cooperative sociali, che hanno una scarsissima possibilità di ribaltare sul prezzo del prodotto / servizio l’incremento dei costi in quanto operano in maniera preponderante in rapporto con la Pubblica Amministrazione con contratti che non riconoscono adeguamenti al costo del lavoro o che stabiliscono comunque tariffe rigide nei sistemi di accreditamento; e stiamo toccando con mano tutte le difficoltà di politiche orientate al “risparmio” risparmio a tutti i costi, anche sul costo del lavoro. Per quanto riguarda la fidelizzazione e la motivazione, la remunerazione rappresenta sicuramente un elemento importante, ma, come ormai molte rilevazioni evidenziano, ci sono altri elementi che ormai hanno priorità nella scelta di un lavoro ed anche nella permanenza nello stesso luogo di lavoro a “tempo indeterminato”.

Ruggeri. Quando è uscita la notizia del rinnovo del contratto nelle chat dei cooperatori si sono susseguiti numerosi commenti di tono profondamente diverso. Ci ha colpito questa pluralità di sguardi e ancor più che fossero tutte posizioni condivisibili. C’è chi si dice indignato per un contratto che ancora una volta non riconosce il giusto valore ai lavoratori e alle lavoratrici sociali, c’è chi è profondamente preoccupato di come le cooperative potranno reggere l’aggravio di costi, e, infine, c’è chi invita a mettere al centro delle nostre battaglie le persone di cui ci prendiamo cura: persone che ogni giorno vedono sempre più messi in discussione diritti che sembravano acquisiti. Abbiamo la sensazione che oggi schierarsi voglia dire tenere insieme questa poliedricità di sguardi e non sceglierne solo uno. È una postura trasversale, è la scelta di abitare la complessità e provare a ri-significarla. All’origine c’è una domanda inespressa che riguarda quale società vogliamo abitare e contribuire a costruire. E non possiamo farci carico da soli di trovare una risposta. Noi non siamo il sociale, noi siamo una parte del sociale. Questa è una questione di fondo dirimente. Se accettiamo di avere questa postura trasversale, dobbiamo probabilmente farci carico di aprire un dialogo e un confronto con altri mondi. I lavoratori delle nostre cooperative sono spesso anche soci (e quindi proprietari); il lavoro che svolgiamo quotidianamente ha una valenza pubblica. Non possiamo affrontare seriamente la questione della dignità del lavoro sociale se non proviamo a riconnettere questioni, istanze e interlocutori.


Impresa Sociale: Esiste oggi - e in che misura - una dimensione politica del lavorare nelle imprese sociali e come si equilibra con quella professionale?

Ruggeri. A nostro avviso questo è il nodo centrale. Il manifesto della Thatcher di diversi anni fa “la società non esiste, esistono solo gli individui” ha permeato la società molto più in profondo di quanto potessimo immaginare. Non per questo la società ha smesso di esistere… È sempre più evidente che la deriva individualista non è in grado di affrontare efficacemente le sfide della complessità. Considerare la povertà una colpa dei poveri senza guardare al contesto che quella povertà ha generato, guardare ai diritti individuali come un costo non più sostenibile, affidare i servizi sociali e sanitari alle logiche del profitto: sono scelte che non hanno pagato. Viviamo una fase di profondo smarrimento: siamo sull’orlo del baratro (basti pensare alle guerre e alla crisi climatica), eppure non siamo in grado di invertire la rotta. E siccome il futuro ci fa paura, organizziamo il presente come riproposizione del passato. È un po’ come guidare la macchina guardando solo nello specchietto retrovisore… Nel nostro documento “La dignità del lavoro sociale” definiamo il lavoro sociale come “agire politico ad elevata professionalità”: un lavoro capace di coniugare competenze e capacità di visione e di agire intenzionalmente in senso politico a favore dei soggetti più fragili e del bene comune collettivo. Il lavoro sociale ha nel gesto politico uno dei suoi tratti distintivi proprio perché si occupa di un futuro che sia desiderabile per tutti. Abbiamo bisogno di tornare a parlare di futuro come di un prodotto culturale collettivo. Coltivare un futuro desiderabile vuol dire confrontarsi con gli sguardi più innovativi, fare spazio alle voci dei più giovani, aprire alle prospettive divergenti, allestire luoghi di dialogo tra mondi.

Vanni. Esiste una dimensione politica, ma, specialmente nei giovani, ha una nuova declinazione. Nei giovani si rileva in modo chiaro l’aspirazione a coniugare lavoro e impegno sociale, l’impegno per la salvaguardia dell’ambiente e per costruire una società maggiormente a loro misura e l’importanza che ha un’organizzazione del lavoro basata sul benessere dei lavoratori più che su modelli estrattivi e spersonalizzanti. L’equilibrio può essere trovato proprio lavorando su questi due livelli: modelli organizzativi e gestionali del lavoro e contenuti e attività prodotte coerenti. Sicuramente non è semplice, ma questo è un ambito che merita un forte investimento sia per l’ingaggio delle nuove generazioni, sia per aiutare le organizzazioni storiche della cooperazione sociale - a volte un po’ stanche e fortemente orientate al quotidiano dalle difficoltà che si susseguono - verso il rinnovo delle proprie ragioni di essere e un nuovo protagonismo per uno sviluppo economico e sociale sostenibile che non lasci indietro le persone più fragili e al contempo sappia valorizzare i migliori talenti.

Gargiulo. Per la generazione precedente le due dimensioni coincidevano, la professione era un modo per dare vita ai valori fondamentali, era un aspetto fondante. Oggi ereditiamo invece un trentennio in cui i rapporti con la PA e più in generale con il mercato hanno portato a standardizzazione e professionalizzazione e in cui l’elemento professionale è diventato sempre più preponderante. Oggi spesso i lavoratori arrivano principalmente da percorsi professionali e non necessariamente da un percorso etico; questo avviene in un contesto in cui sono presenti gli elementi di disaffezione di cui già si è detto, per cui anche chi ha iniziato con una spinta motivazionale importante rischia di perderla. D’altra parte, il periodo del Covid e del post Covid ha visto un grande esodo di lavoratori, anche giovani, motivato dalla non corrispondenza tra il lavoro e le proprie aspettative di vita e questo evidenzia l’attualità di una ricerca di senso che cooperative sociali potrebbero cogliere. Le nuove generazioni hanno metabolizzato alcune sensibilità, come quella ambientale e quella della partecipazione: potremo intercettare queste istanze da parte di persone in uscita da lavori di cui non riscontrano più il senso. Ma dobbiamo essere in grado di offrire posizioni lavorative adeguate. Dobbiamo uscire dalla logica di subalternità all’ente pubblico o al mercato – quella che porta a rassegnarci se un lavoratore eccellente va a lavorare altrove - e dalla logica di scambiare le istanze valoriali con condizioni economiche penalizzanti. Al contrario, dovremo darci una strategia, anche economica, per mantenere presso di noi i lavoratori migliori, quelli che possono fare una differenza.

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