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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2024

Editoriale

Le dimensioni della questione del lavoro nelle cooperative sociali

Gianfranco Marocchi


La riflessione sul lavoro sociale è oggi al centro di molte attenzioni a partire da un fattore di crisi evidente: vi sono segni di disaffezione verso il lavoro sociale e si trovano sempre persone disposte a lavorare come operatori sociali. Questo rappresenta un problema significativo nel Terzo settore e in specifico nelle cooperative sociali che oggi occupano la parte preponderante di alcune figure professionali come gli educatori; ma le tensioni sono palpabili anche per altre professioni sociali e in enti diversi, compresi gli enti pubblici. Vi sono servizi che non riescono a partire per mancanza di operatori o enti pubblici che, pur di riuscire ad avviare gli interventi, derogano a requisiti di accreditamento, accettando che le cooperative operino anche con lavoratori privi del titolo previsto.

L’origine di questo fenomeno è evidentemente complessa e, se vogliamo superare l’impressione di parzialità nelle risposte, è necessario riuscire a trovare un filo comune capace di collegare piani di ragionamento diversi.

Un primo insieme di ragionamenti – forse quello su cui si concentrano la maggior parte delle analisi - è centrato sui lavoratori: ci si chiede, ad esempio, se siano più o meno motivati o se le motivazioni siano simili o meno rispetto a quelle dei decenni passati, se siano soddisfatti della loro remunerazione, del loro coinvolgimento, dell’equilibrio tra lavoro e altri aspetti della vita e di altre dimensioni e in che modo l’insieme di questi elementi contribuisca a determinare sia la scelta di permanere o meno nell’organizzazione in cui oggi lavorano, sia, più in generale, di continuare a svolgere una professione sociale. In questo caso, l’unità di analisi è quindi il singolo lavoratore che viene intervistato o che partecipa a focus group e che così offre il suo punto di vista, generalmente poi contestualizzato dal ricercatore entro tendenze culturali, anche confrontate con situazioni pregresse (“i lavoratori oggi sono più attenti a xxx, a differenza dei lavoratori di alcuni anni fa che erano più attenti a yyy”) o con le caratteristiche sociodemografiche della persona (es. il fatto che siano più o meno giovani, più o meno istruiti, ecc.) o, ancora, rispetto al ruolo svolto nella cooperativa, sia dal punto di vista professionale, sia dell’eventuale presenza nell’organigramma direttivo, sia con riferimento alla situazione attuale, sia alla possibile evoluzione nel corso del tempo.

Ma non va dimenticato – e questo rappresenta il secondo insieme di ragionamenti che si vogliono richiamare - che ciò che i lavoratori esprimono matura all’interno di un contesto organizzativo, principalmente, per quanto riguarda le analisi qui sviluppate, quello delle imprese sociali in forma cooperativa. Quindi, quando ci si domanda, ad esempio, quanto un lavoratore si senta coinvolto, partecipe, valorizzato, ecc. non stiamo analizzando solo un aspetto relativo alla percezione o alla psicologia di una persona, ma anche il funzionamento effettivo dell’ente in cui lavora. Sono due facce della stessa medaglia, due dimensioni che richiedono di essere comprese in modo indipendente: se affermiamo ad esempio che un lavoratore “apprezza il clima relazionale che c’è in cooperativa” stiamo al tempo stesso affermando qualcosa che riguarda il lavoratore (la sua psicologia, il fatto che la dimensione relazionale sia per lui importante e che avverta sensazioni positive su questo aspetto nel suo luogo di lavoro) e qualcosa che riguarda la cooperativa in cui opera, che può avere messo in atto accorgimenti organizzativi per facilitare la relazione. Ciascuna impresa sociale esprime infatti una storia, una cultura, adotta soluzioni che attirano o respingono determinate persone o atteggiamenti. Tutto questo determina dinamiche non scontate, anche perché le persone e le organizzazioni talvolta si scelgono reciprocamente, talvolta si ritrovano per caso o per necessità e negoziano i termini della propria relazione. Possono esservi organizzazioni fortemente identitarie e altre laicamente definite su base professionale, organizzazioni altamente proceduralizzate ed altre in cui vige una diffusa informalità, e così via; e nel descrivere come le persone si trovano nel proprio posto di lavoro è necessario tenere a mente che entrambi i termini di questa relazione possono manifestare caratteristiche diverse che tra l’altro possono evolversi nel corso del tempo.

Lavoratore e organizzazione, a loro volta, operano – e questo è il terzo tipo di analisi qui proposta - nel più vasto contesto del welfare – inteso in senso lato – e delle sue evoluzioni, nonché nel contesto politico e culturale più generale. Ciò chiama di nuovo in causa una molteplicità di aspetti. Una cosa è, tanto per il lavoratore quanto per l’organizzazione, operare in un contesto con adeguate risorse a disposizione, un’altra è farlo in un panorama di tagli indiscriminati; una cosa è essere parte di un sistema di welfare creativo e che si pone sfide di cambiamento, un’altra è trovarsi dentro un welfare, per prendere a prestito le parole di Cristiano Gori, prestazionale ed emergenziale e così via; una cosa è sentirsi apprezzati e legittimati per il proprio lavoro, un’altra è operare – per il tipo di professione svolta, o per gli utenti di cui ci si occupa - in un clima diffuso di sfiducia, disinteresse, dovendo fare i conti con pregiudizi e ostilità diffuse. Ad esempio, operare nell’ambito di una progettazione originale sulla povertà educativa, contribuendo in modo creativo a definire i contorni ancora sfumati di un nuovo tipo di interventi prima inesistente e poi in espansione è diverso dal lavorare nell’accoglienza di richiedenti protezione internazionale all’indomani del decreto Salvini del 2018, sentendosi circondati dal discredito e in una situazione di rapida dismissione dei servizi. E questo riguarda tanto le organizzazioni, che possono di conseguenza posizionarsi (a seconda dei casi, come partner propositivi, come esecutori passivi, come “resistenti” critici, ecc.), quanto i lavoratori, che a loro volta possono collocarsi in modo diverso sia rispetto all’impresa, sia al contesto, anche in questo caso con diverse configurazioni possibili: ad esempio, in una situazione in cui la dirigenza di una cooperative assume una posizione di resistenza critica contro un’evoluzione del welfare indesiderata, possiamo avere lavoratori solidali che lottano insieme alla propria cooperativa, così come casi di sfilacciamento in cui il lavoratore ritiene l’atteggiamento oppositivo come una sconsiderata testardaggine dei dirigenti che mette a rischio l’occupazione, auspicando una linea più accomodante o comunque considerando come prima priorità da perseguire la propria continuità lavorativa.

In sostanza, analizzare quanto sta accadendo nel mondo del lavoro sociale richiede di guardare a tre sistemi, ciascuno dei quali non monolitico, ma connotato anzi da significative complessità e articolazioni interne: gli operatori, le organizzazioni in cui lavorano, il contesto del welfare e più in generale il contesto politico e culturale.

Questi tre livelli sono in una relazione dialettica e dinamica. Dialettica, perché ciascuno dei tre livelli interagisce con altri in modo biunivoco. L’organizzazione si comporta in modo diverso a seconda che senta di avere o meno i propri soci solidali; un ente pubblico può comportarsi diversamente a seconda della capacità di iniziativa delle cooperative del territorio, la motivazione del lavoratore è diversa a seconda del contesto e così via. Dinamica, perché questo tipo di equilibri non è mai definito una volta per tutte, anzi si riadatta progressivamente e continuamente.

I saggi pubblicati in questo numero ben documentano come una visione semplicemente centrata sul lavoratore rischierebbe di essere riduttiva e di non far comprendere i fenomeni con cui dobbiamo confrontarci.

Pasquinelli, tra i molti spunti, confronta le remunerazioni di talune professioni sociali nel nostro Paese e all’estero, evidenziando come in Italia siano drammaticamente svalutate, oltre che sottoposte a contesti organizzativi che, sotto la pressione di un mercato che cerca l’efficienza spinta, si caratterizzano per la precarizzazione – cambi di gestione, rotazione sui servizi, orari spezzati – e per le incertezza sulle prospettive di crescita professionale, il tutto entro un clima che tende a disarticolarsi. Questo, sottolineano Musella e Verde, deriva da un pregiudizio implicito quanto radicato in talune visioni economiche, sulla “non produttività” del lavoro sociale, dimenticando che, secondo la scienza economica, il mancato incontro tra posizioni lavorative vacanti e disponibilità del lavoratore ad occuparle può essere letto tanto come indisponibilità dell’imprenditore a corrispondere un pagamento troppo elevato a fronte di una bassa produttività, quanto come indisponibilità del lavoratore a rinunciare al proprio tempo a fronte di una gratificazione troppo bassa.

Tutto ciò, sostiene Giullari, va letto e compreso a partire dalla natura assunta dall’impresa sociale, che oscilla tra l’essere “intrapresa collettiva di costruzione sociale, per la messa in visibilità di materie e beni comuni e la realizzazione di fatto di diritti… in cui il lavoro gioca un ruolo di primo piano… quale fattore di emancipazione” e l’essere ingranaggio funzionale all’affermazione di una concezione privatistica del welfare, svolgendo una funzione di intermediazione “estrattiva” nei confronti del lavoro e diventando strumenti per imporre ai lavoratori istituti quali “flessibilità oraria e cambio sistematico della durata dei turni di lavoro (che sovente si svolge in luoghi differenti nel corso di una giornata) … riconoscimento economico nullo o parziale del tempo impiegato negli spostamenti da un luogo di lavoro all’altro, ma anche del tempo utilizzato in incontri organizzativi,… obbligo di effettuare le cosiddette notti passive … retribuzione dei lavoratori sulla base dell’effettiva presenza dei beneficiari dei servizi … incertezza sulla continuità dell’impiego”.

Anche la percezione che i lavoratori delle giovani generazioni siano privi delle spinte ideali che hanno caratterizzato i fondatori appare semplicistica: è forse più corretto evidenziare la presenza di un cambio di atteggiamenti, priorità e istanze tra le diverse tra le generazioni di lavoratori, come documenta Frigo a partire da una ricerca realizzata da Federsolidarietà Veneto e come confermano nelle interviste Vanni, Ruggeri e Gargiulo. Questo non significa che i più giovani siano privi di sogni di cambiamento, ma chiede invece di interrogarsi su quali siano gli elementi sui cui tali sogni vanno, piuttosto precocemente, ad infrangersi. Significa, come evidenzia Fazzi, che l’idealità non può giustificare qualsiasi condizione mal pagata, degradante, destrutturata e incapace di costruire prospettive. E che la motivazione trova terreno poco fertile in “cooperative sociali che si comportano come normali imprese profit” o che “sono un mero braccio strumentale di imprese profit”, come scrive ancora Fazzi “nuovi soggetti che sono «ibridi alla rovescia» rispetto a quelli teorizzati dalla recente letteratura” che teorizza l’adozione di priorità sociale da parte delle imprese for profit;  a questo “corrisponde l’aumento della percezione dei lavoratori di trovarsi di fronte a un fenomeno che sempre meno si distingue dal normale mercato del lavoro mosso da obiettivi commerciali”.

Un esempio della complessità della situazione attuale è ben testimoniato dai contributi di Burgalassi e Tilli e di Cellini che analizzano la professione di assistente sociale nel Terzo settore. Da una parte vi sono casi positivi in cui chi lavora individua “come tratti specifici della esperienza lavorativa nel Terzo settore … l’impegno del loro ente nel sostenere e favorire un protagonismo operativo, … un suo slancio particolare nello svolgere attività destinate a persone che non riescono ad accedere ai servizi” e in cui chi lavora è soddisfatto di essere coinvolto nelle scelte e di avere possibilità di crescita e valorizzazione. Dall’altra vi sono però casi di collocazioni professionali degradanti, in cui l’ente di Terzo settore è una sorta di (illecito, peraltro) procacciatore di ore lavoro di assistente sociale che vengono conferite e integrate nell’organico pubblico, essendo il professionista inviato dalla cooperativa identificabile solo per la minore retribuzione e le minori tutele rispetto ai colleghi pubblici con i quali lavora gomito a gomito. Non a caso, Giullari sostiene la necessità “di un’unica fattispecie contrattuale [per] … tutti coloro che operano nell’ambito della funzione pubblica, indipendentemente dall’appartenenza organizzativa” evidenziando che così vi “sarà lo spazio perché a fare la differenza siano le pratiche e le strategie di “intrapresa di costruzione sociale” … e non la qualità delle condizioni di lavoro”.

Tutte queste situazioni – ci si rifà ancora a quanto richiamato da Fazzi – se talvolta possono essere tollerate da chi ormai si avvicina alla pensione, descrivono un contesto che non può che spaesare chi intraprende oggi un cammino nelle imprese sociali, e che vede disattesa l’aspettativa che il proprio lavoro possa avere un valore trasformativo, anche considerando la percezione diffusa di disinvestimento da parte delle politiche pubbliche nei confronti del welfare.

Ancora, secondo Fazzi, “i maggiori problemi si riscontrino tra i lavoratori che operano all’interno di servizi fortemente proceduralizzati, con scarso tempo da dedicare alle persone, e che generano più stress lavorativo; tale conformazione dei servizi è spesso causata dalla pressione verso l’industrializzazione del sociale”, mentre si riscontra “l’importanza degli incentivi in termini di apprezzamento che colleghi e superiori forniscono ai lavoratori per proporre idee e la disponibilità a accoglierle e ascoltarle” e l’importanza di valorizzare il personale più motivato dando fiducia, coinvolgendolo in progetti innovativi e offrendo opportunità di crescita.

Come conclude Pasquinelli, “serve una valorizzazione delle professioni sociali tout court: da un punto di vista salariale, perché il sistema tiene se tengono i lavoratori, le lavoratrici e le rispettive famiglie; da un punto di vista politico e della priorità che questo settore deve acquisire, diventando settore di investimento per la società, perché indispensabile”; e, come sottolinea Fazzi, “i sistemi e i percorsi di crescita personale e professionale dei lavoratori vanno posti al centro delle politiche di sviluppo delle cooperative”, dedicando energie a nuove strategie imprenditoriali e ad un aggiornamento dei sistemi di gestione delle risorse umane.

Il diffondersi di meccanismi di accreditamento e di standard di qualità che tendono a proceduralizzare e parcellizzare il lavoro; istanze interne e esterne per l’ottimizzazione spinta dei servizi, ad esempio imponendo minutaggi aggressivi per le singole azioni di cura che poco spazio lasciano alla relazione; una certa pressione, indotta da talune teorie sulla valutazione, per dimostrare risultati immediati – guarigioni, redenzioni, riabilitazioni - laddove il lavoro sociale spesso è al contrario opportunità da lasciare ai tempi di maturazione della persona; talune pressioni sindacali che enfatizzano i contenuti professionali a discapito della considerazione del lavoro sociale come fattore di cambiamento: tutti questi fattori determinano un’evoluzione significativa del lavoro sociale e dell’identità stessa degli enti in cui esso è organizzato.

In un contesto di welfare con risorse insufficienti e spinte all’efficientamento dei servizi, le soluzioni adottate per gestire il personale sono quelle emerse in più parti negli articoli di questo numero: operatori che chiamati a svolgere un numero definito di ore lavoro (prestazioni) in servizi diversi (talvolta, in aggiunta, con condizioni di ingaggio discutibili, come orari spezzati o mancato riconoscimento dei costi di spostamento) e che di conseguenza non sviluppano progettualità, non considerano né la propria attività né la propria cooperativa come luogo di investimento o come opportunità di costruire cambiamento sociale. È un lavoro “visitato”, non entra a far parte dell’identità della persona e in cui la persona non si sente parte di un soggetto collettivo cooperativo.

L’esito è quello di una taylorizzazione del lavoro sociale. Cooperative interscambiabili (e “ruotabili”, come immaginato nell’incredibile e criminogena applicazione del principio di rotazione agli affidamenti di servizi di welfare), così come lo sono i lavoratori, diventati portatori di ore di prestazione professionale da incasellare in qualche tabulato per rispondere just in time ad esigenze puntuali di servizio.

L’esito è quello di una drammatica svalutazione del lavoro sociale e la sua spersonalizzazione: anche nel linguaggio organizzativo è invalso l’uso di dire “servono 15 ore di educatore” in quel servizio, espressione che ben evidenzia come si sia giunti all’irrilevanza progettuale e personale. E se le persone diventano interscambiabili, sostituibili, non è difficile immaginare che vi possa essere qualcuno (più giovane, più straniero, più disperato, ecc.) ben disposto a lavorare a condizioni peggiorative, che nessun livello di controllo – né sindacale, né del committente pubblico – riuscirà mai ad intercettare.

Quando si dice vedere il dito e non la luna: se in tale situazione le persone non sviluppano una particolare fedeltà verso la propria cooperativa, se scappano appena possono, se non si affezionano al lavoro sociale, i committenti pubblici – che hanno con forza stimolato questa evoluzione – criticano severamente l’eccessivo turnover di personale nei servizi da loro appaltati, i dirigenti di cooperativa si rammaricano che i lavoratori di oggi non hanno più lo spirito di quelli di una volta, i sindacati provano a spuntare una qualche tutela aggiuntiva. Tutto inutile, tutto fuori luogo, evidentemente.

Se il lavoro perde di senso, non vi è gratificazione economica che tenga. E questo non lo si afferma certo per auspicare una “iniezione di senso” che renda il lavoratore felice anche con remunerazioni misere, ma per evidenziare l’urgenza di riaprire una riflessione collettiva sul lavoro sociale. In altre parole, è difficile diventare (o permanere) “idealisti” laddove l’ingaggio è limitato ad un puzzle di incarichi prestazionali entro un contesto che si limita ad esprimere istanze riparative ed emergenziali. È quindi assolutamente doveroso quindi agire sul fronte di una maggiore retribuzione, ma questo diventa un elemento significativo nella misura in cui è uno degli elementi che cambiano l’ingaggio complessivo di chi opera nel sociale.

Si tratta di lavorare alla costruzione di un contesto in cui chi fa lavoro sociale 1) si senta parte protagonista di un progetto di cambiamento, 2) all’interno di un’organizzazione dove è valorizzato per la sua professionalità ma 3) ancor prima come attore di trasformazione 4) nell’ambito di welfare permeabile e ricettivo a nuovi stimoli e 5) non affetto da deliri manageriali. Tutto questo costituisce al tempo stesso una condizione necessaria (anche se purtroppo non sufficiente, vista la variabile costituita dalle scelte politiche) di sostenibilità dell’impresa sociale, perché rappresenta la base per costruire una legittimazione culturale dell’investimento nel lavoro sociale. In sostanza, si tratta di rivendicare l’accesso alle risorse non sulla base dell’essere fornitori (ruotabili) di personale (intercambiabile), ma dell’essere protagonisti riconoscibili di un progetto di trasformazione sociale. Ma si è consapevoli, d’altra parte, della distanza tra quanto qui affermato e una parte non trascurabile della realtà delle imprese sociali.

Forse la questione, oggi, è proprio questa. Non tanto la presenza di problemi e resistenze esterne, ma il fatto di averli introiettati, di essere giunti ad amare ciò che incatena, come l’animale cresciuto in cattività che, anche quando la gabbia viene aperta, vi permane per abitudine e per sicurezza. In un contesto pur anche difficile, ma in cui si vede una prospettiva di cambiamento, si profonde impegno e ci si mette in gioco a livello personale; dove al contrario la direzione è smarrita, ogni cosa perde di senso e ogni gratificazione diventa insufficiente.

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