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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2024

Saggi

Le condizioni di lavoro nell’impresa sociale: un tema urgente di rilevanza pubblica

Barbara Giullari


In questo contributo si propongono alcune riflessioni che partono da uno sguardo socio-lavorista al tema affrontato in questo Focus sul lavoro nelle imprese sociali.

L’analisi sulle condizioni di lavoro nell’economia della cura[1] non ha, nella riflessione scientifica e accademica, la rilevanza che le spetterebbe, se pensiamo all’impatto esercitato sulla vita di centinaia di migliaia di persone, a partire dalla relazione tra qualità delle condizioni di lavoro e qualità di servizi e interventi sociali e socioassistenziali. L’analisi delle condizioni di lavoro nelle imprese sociali rappresenta dunque un punto privilegiato di osservazione dello stato di salute del nostro sistema di welfare, nel tentativo di cogliere le condizioni strutturali che lo sorreggono e la posta in gioco.

Nell’imponente mole di letteratura prodotta in tema di economia sociale e alla luce della complessità delle questioni affrontate, la proposta è di assumerne due come centrali: i) il significato del costrutto di impresa sociale rispetto ai processi di innovazione istituzionale il cui fine ultimo è alimentare la publicness di beni e servizi trattati; ii) le potenzialità del costrutto di impresa sociale per pensare ad un diverso modo di declinare il concetto stesso di economico e del rapporto tra economia e società, a partire dal ruolo del lavoro nel capacitare le persone e nel riprodurre la società. Naturalmente si tratta di questioni intrecciate fin dalle origini dell’economia sociale e le cui trasformazioni sono di importante attualità, pertanto, cercheremo di svolgere il nostro percorso seguendo questa traccia.

A proposito di “terzietà”

Per avviare queste riflessioni consideriamo le istituzioni di welfare non esclusivamente dal punto di vista delle prestazioni e dei servizi che erogano (in quantità e qualità) - per quanto sia ovviamente una dimensione fondamentale da osservare -, ma innanzitutto come beni di cittadinanza e dunque con un interesse specifico per le pratiche attraverso le quali si rende visibile il processo collettivo (fatto di diritti e di responsabilità) che li rende disponibili e riproducibili, operando la trasformazione da bisogni individuali in diritti collettivi, sotto forma di “proprietà sociale” (Castel, Haroche, 2013) in capo alla responsabilità collettiva. Ciò è avvenuto in modo differente nel tempo e nello spazio, grazie alla mediazione di una istanza “terza” appunto, incarnata dalla dimensione istituzionale nella sua più ampia accezione (de Leonardis 1990, 2001 Supiot, 2020); qui un ruolo di primo piano è rivestito dal lavoro di cura professionalizzato, inquadrato in una fattispecie statutaria che corrisponde a quello della funzione pubblica, “tramite” della responsabilità collettiva nei confronti della riproduzione sociale e della qualità della vita dei cittadini (Supiot, 2019). In tale accezione sta la differenza fondativa tra pubblico e privato, la quale tuttavia non consente di stabilire a priori tra il primo e il suo contrario, che, come noto, non coincide esclusivamente con la differenza tra statuale e non statuale (De Leonardis, 2009). Il riferimento è alla publicness quale proprietà emergente che riguarda le relazioni tra attori di diversa natura (Bifulco, De Leonardis, 2005) per la messa in visibilità e il riconoscimento di temi e problemi di interesse collettivo. I prodromi di questo processo li possiamo individuare in diverse generazioni di esperienze appartenenti all’ambito dell’economia sociale (Eme, Laville, 2006), le quali hanno rappresentato e rappresentano un insieme eterogeneo - abitato da molteplici attori, interessi e poteri - quanto radicato nei diversi contesti spaziali e momenti storici per cercare di sottomettere ad un agire di tipo democratico l’organizzazione della produzione e la distribuzione di beni e servizi e in cui i rapporti di solidarietà risultassero prioritari sull’interesse individuale o sul profitto economico (Defourny, 2006a, 2006b, Eme, Laville, 2006).

Infine, la prospettiva che si propone di adottare per leggere le dinamiche riconducibili alle esperienze dell’economia sociale è dunque quello che guarda alle “lotte sui confini” (Fraser, 2016, 2019, 2023) – e al potenziale di trasformazione che possono attivare - originate dalle contraddizioni intrinseche del capitalismo come ordine sociale istituzionalizzato, il cui funzionamento conta sulla separazione istituzionale tra le diverse sfere dell’esistenza umana e non, a partire da quella tra produzione e riproduzione sociale e tra economia e politica, le cui attuali profonde criticità sono alla base dell’attuale profonda crisi ecosistemica.

Una “diversa” terzietà

La costruzione della solidarietà istituzionalizzata ha vissuto continue metamorfosi, in un intreccio permanente di attività svolte da organizzazioni statuali e da organizzazioni della società civile organizzata; pur nella precarietà e incompletezza degli equilibri via via raggiunti, il ruolo delle differenti organizzazioni dell’economia sociale è stato essenziale quanto variegato, soprattutto nei momenti di crisi. È utile ricordare i processi contradditori che hanno caratterizzato l’evoluzione del sistema di welfare nel nostro paese in un intreccio complesso tra azione istituzionale e attivismo sociale e politico, sfociato nella stagione di riforme del welfare degli anni ’70, con passi importanti sul piano dell’incremento della responsabilità collettiva: dalla costituzione del SSN, alla riforma del sistema psichiatrico per non citare che gli esempi paradigmatici. Quello stesso attivismo ha seguitato ad alimentarsi delle promesse mancate da parte delle istituzioni del welfare del potenziale di innovazione sul piano dell’affermazione di diritti sociali fondamentali. Indebolite dalle difficoltà dei processi di implementazione e dai deficit di pianificazione e non ultimo, finanziarie (de Leonardis, 1990; Vitale, 2009), le istituzioni del welfare si sono rivelate di fatto largamente inefficaci nel promuovere una cittadinanza universale, quanto astratta e di fatto escludente nelle pratiche concrete. Si sono così aperti spazi di conflitto per conquistare nuovi diritti e/o per dare concreta garanzia a quelli sanciti tramite le riforme, per portare a visibilità pubblica gruppi sociali/problemi. Come evidenziato da Ota de Leonardis (2009) una tra le prime esperienze di cooperazione sociale nacque nel manicomio di Trieste, nel 1972, al cuore del processo di de-istituzionalizzazione guidato da Franco Basaglia e qui il registro argomentativo è quello del “protagonismo degli utenti”. È da queste esperienze pioneristiche che si innesca a livello nazionale un dibattito sull’importanza del lavoro nei compiti e nelle strategie di integrazione del welfare, attraverso forme di intervento che associano mondi separati: impresa e lavoro, sociale e assistenza, mondo della produzione e dell’improduttività della spesa sociale (ivi). È così che tra la fine degli anni ’70 e la metà degli anni ’80 si inizia a parlare di una sfera autonoma e “terza” rispetto allo stato e al mercato (Busso e Gargiulo 2016) attraverso la costituzione di realtà con un carattere fortemente militante, spesso eredità dei movimenti e del mutualismo delle origini. Occupando l'intersezione tra Stato, mercato e società civile organizzata per rispondere a esigenze sociali insoddisfatte (Fazzi 1998, 2022) prende forma un mosaico complesso di organizzazioni di economia sociale che combinano il lavoro comunitario politicizzato con modelli di impresa sociale. Si tratta di iniziative che fanno leva sulla reciprocità e il mutuo impegno per l’emergere di pratiche economiche in cui la cooperazione e la relazionalità degli individui non sia valorizzata tanto ed esclusivamente rispetto alla valenza economica dei beni e dei servizi creati e offerti, ma diventi un modo in cui le azioni coordinate dei singoli contribuiscano a riempire uno spazio pubblico di discussione sui beni comuni da riconoscere e rigenerare, un modo per ricomporre la frattura tra lo spazio dell’economico e quello della riproduzione sociale. L’ancoramento al patrimonio storico della cooperazione rimanda inoltre ai principi della democrazia interna e della proprietà comune che della cooperazione sono costituitivi.

Nel lungo cammino dell’impresa sociale nel nostro paese, definizione ombrello che racchiude esperienze molto diverse (de Leonardis O., Mauri D., Rotelli F., 1994; Laville, Cattani, 2006; Laville, La Rosa, 2009), scandito dal riconoscimento normativo e da una sempre più ampia diffusione, si possano identificare visioni “alternative” (de Leonardis, 1999; Borghi 2009) che hanno a che fare, riprendendo gli interrogativi con i quali abbiamo aperto questo contributo, con la possibilità di incrementare la publicness di beni e servizi trattati o al contrario con il rischio di “privatismo” che possono alimentare. La natura privatistica prevale nel momento in cui l’impresa sociale è un’organizzazione che offre risposte a bisogni sociali di individui e famiglie, ai quali si risponde attraverso iniziative economiche e/o l’appello a virtù morali private, sottraendo le materie sociali implicate al discorso pubblico sulle scelte e i fini comuni (de Leonardis, 1998).

Al polo opposto, una versione di impresa sociale laddove l’azione di queste organizzazioni si riconnette allo spazio pubblico e al registro della cittadinanza, in cui è centrale la relazione con la società nel suo insieme (Borghi, 2009). Il rapporto tra sociale ed economico vede il primo come fine e il secondo come strumento in grado di alimentare legame sociale, attraverso un lavoro di qualità, dinamiche di incontro e scambio tra contesti e persone, tra istituzioni e organizzazioni di diversa natura. L’impresa sociale si configura allora come “intrapresa di costruzione del sociale” (de Leonardi, 2009, p. 139). Imboccare questa direzione chiama in causa non solo la ragione sociale degli attori organizzativi, ma le logiche di azione, le pratiche e ciò che esse generano nei contesti in cui si esplicano. Innanzitutto, organizzare le proprie attività avendo come perno il ruolo dei destinatari, avendo cura dei contesti nei quali le persone vivono, il livello di agency accordato loro, il livello di condivisione delle attività, laddove il lavoro svolge un ruolo di primo piano. In secondo luogo, ma non meno importante, il grado di apprendimento istituzionale e institution building che si può innescare dall’incontro tra istituzioni e realtà dell’economia sociale.

In sintesi, il costrutto di impresa sociale ha rappresenta una “scommessa”, originata dal tentativo di ricomporre contraddizioni tra economia e società, tra pubblico e non pubblico, chiamando in causa, oltre a ogni singola organizzazione e cooperativa sociale con storia e caratteristiche proprie, altri attori, le istituzioni pubblico-statuali, i corpi professionali, gli attori economici, i poteri, i diritti, le norme e gli assetti istituzionali. Da queste complesse interazioni emergono le potenzialità di trasformazione della realtà rispetto all’esistente o viceversa, i rischi di penetrazioni di logiche di stampo opposto.

Questioni (ancora) aperte

Assumendo la lente del lavoro è possibile arricchire la riflessione sulle potenzialità dell’impresa sociale, laddove il processo di intrapresa collettiva ha quale posta in gioco il superamento di una visione economicistica di lavoro, avulsa da preoccupazioni sul suo statuto e sulla sua qualità, quanto come tramite per la validazione delle persone e degli spazi collettivi di vita, sottraendolo ad una riduzione a mero fattore produttivo, pura merce.

Come è noto, il riconoscimento normativo delle cooperative sociali e la distinzione tra quelle di tipo A e di tipo B ha sollevato e continua a sollevare (Galera, Tallarini, 2023) più di un interrogativo rispetto alle concrete possibilità di tematizzare il lavoro quale categoria, pratica sociale, esperienza umana fondamentale di messa in comune e di inclusione sociale, nella consapevolezza che il connubio tra lavoro e protezione/assistenza esponga i soggetti “svantaggiati” al rischio di essere inseriti in mercati del lavoro di serie b, a vantaggio di processi di mercificazione di beni e servizi di rilevanza collettiva, oltre al lavoro stesso.

Meno attenzione, perlomeno all’avvio dell’istituzionalizzazione della cooperazione sociale, è stato rivolto ad analoghi rischi riguardo le condizioni di lavoro degli operatori. Eppure, il lavoro sociale è terreno di tensioni che vengono da lontano e che il divenire dei fenomeni qui in oggetto ha alimentato.

Proviamo a ripercorrere sinteticamente le coordinate del problema. Il lavoro sociale appartiene al più ampio aggregato del care work (ILO 2018), attività al confine tra produzione e riproduzione sociale, per rispondere a bisogni umani fondamentali, materiali e immateriali, a elevato contenuto di relazione, interdipendenza e cooperazione tra operatori e beneficiari e tra operatori e che condividono un destino di svalutazione che origina da pregiudizi culturali che rimandano alla associazione originaria con la “naturalità” femminile e l’ambito dei rapporti intimi, personali e familiari, che nel tempo ha alimentato un ampio repertorio giustificativo (England 2005), basato sull’incontro tra più aspetti: difficoltà a tradurre in valore economico (retribuzioni) i benefici indiretti (beni pubblici); il ruolo cruciale giocato dalla gratuità e dal naturale altruismo quali ricompense “intrinseche” che motiverebbero i lavoratori della cura ad accettare condizioni di lavoro di bassa qualità sulla base di opposizioni fuorvianti tra lavoro retribuito e lavoro di cura e il rischio speculare, in termini di alienazione dei lavoratori e di “corruzione” della cura, che deriverebbe dalla “mercificazione” (leggi retribuzione); laddove le famiglie, le istituzioni no profit e i gruppi informali rappresentano le uniche fonti di cura autentica, a dispetto della fallacia delle sfere separate (Zelizer, 2009). Questo catalogo di stereotipi, vera e propria profezia che si autoavvera, ha incontrato nell’economia sociale un ulteriore terreno di contraddizioni. Come si è già osservato, a partire dalle origini, nelle cooperative sociali il lavoro tende a [con]fondere l'occupazione con l'attivismo, laddove, paradossalmente, la rilevanza sociale e politica di questo tipo di lavoro ha contribuito a metterne in discussione le caratteristiche di “vero” lavoro e di attenzione verso le concrete condizioni di svolgimento, assumendo in modo acritico la compensazione tra ricompense intrinseche ed estrinseche (Dorigatti et al, 2024), contribuendo a offuscare l’analisi delle concrete condizioni di lavoro (Castellini, 2021).

Verso pratiche di disconnessione del lavoro nell’economia sociale

Il rapporto tra attore pubblico e impresa sociale è stato segnato da significative ambivalenze di fondo fin dagli anni ’90, momento del riconoscimento e successivamente nel corso della sua espansione (Fazzi, 2022) in cui la cooperazione sociale assume un ruolo di primo piano nella produzione di servizi sociali, sociosanitari e socioeducativi. A questo proposito un elemento su cui è importante porre l’attenzione è l’evoluzione degli strumenti che regolano i rapporti tra pubblica amministrazione e soggetti dell’economia sociale, considerando ogni strumento di policy «un dispositivo al tempo stesso tecnico e sociale, che organizza rapporti sociali specifici tra il potere pubblico e i suoi destinatari, in funzione delle rappresentazioni e dei significati di cui è portatore» (Lascoumes, Le Galès, 2009, p.3). Gli strumenti dell’azione pubblica non sono quindi neutri, assumono diversi significati e implicazioni a seconda degli attori coinvolti e del contesto in cui sono implementati.

Riprendiamo alcuni elementi di contesto.

Relazioni pericolose in un contesto di governance

Sul fronte dell’attività governativa, si assiste a una riconfigurazione all’insegna della governance, in un processo di vera e propria re-invenzione degli spazi istituzionali e in cui i processi decisionali sono protesi verso il problem solving e l’effettività di risultati, da ottenere con il massimo dell’efficienza, dell’efficacia e del risparmio di risorse politiche, in un orientamento che, soprattutto agli esordi, è decisamente pro-mercato. In tale contesto si fa ampio ricorso a organismi tecnocratici e professionali e la legittimazione democratica è sostituita dalla competenza e dall’intrinseca saggezza e moralità; così come si ricorre a dispositivi partecipativi finalizzati ad allargare ad hoc, specialmente su temi delicati, la base decisionale - in particolare ai destinatari dei provvedimenti stessi - al fine di ottenerne il consenso (Moini 2012), evitando così l’arena del più ampio confronto politico, avverando il sogno di un governo «senza politica» (Maier 2016). In sintesi, nel dispiegarsi della governance si confrontano, non senza ambivalenza, «[…] opposte realizzazioni. Da una parte, la creazione di nuovi canali di partecipazione e di nuove opportunità di pluralismo […]. Dall’altra, una significativa compressione della politica democratica e delle sue poste in gioco, a vantaggio di una sempre più ampia privatizzazione del governo del mondo» (Ferrarese 2016, p.15). Dinamiche che si traducono in un’ampia varietà di combinazioni e una gamma poliedrica di strumenti di regolazione per rispondere alla specificità dei contesti contestualmente all’indebolimento delle istituzioni che un tempo presidiavano la vita pubblica e rischi di trattamento isolato e settoriale delle questioni che riguardano la vita sociale. A seguito della moltiplicazione dei soggetti e dei contesti decisionali, si diffonde uno stile di governo in cui agiscono “poteri policentrici”, con un coinvolgimento a geometria variabile di istituzioni pubbliche e private, che possono mescolarsi variamente, laddove «la capacità di istituire un terzo livello fatto di informalità giuridica e di sancire nuove linee di confine pubblico/privato è uno degli snodi cruciali» (ibidem, p.8). L’affermazione del principio di sussidiarietà orizzontale avviene in un clima di diffusa benevolenza (Busso, Gargiulo, 2016) nei confronti delle realtà dell’economia sociale considerata, da Amministrazioni di diverso orientamento, la ricetta vincente per uscire dalla crisi del welfare state e attore di primo piano del costituendo welfare locale, attraverso dinamiche di outsourcing di servizi. Queste ultime si diffondono contestualmente ai processi di aziendalizzazione, mercatizzazione e managerializzazione che, anche nel nostro paese, di diffondono a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso e in specifico attraverso l’assunzione dei principi del New Public Management NPM (Pollit, Bouckaert, 2002; Girotti, 2009), in base al quale vengono apportati significativi processi di riorganizzazione dei servizi di rilevanza collettiva, all’insegna della razionalità economica, sotto forma di razionalità politica di ispirazione neo-liberale, attraverso la promozione di alcuni principi chiave: competizione, libertà, efficienza e innovazione (Giannone, 2019). Una tappa fondamentale si registra con l'introduzione della Legge quadro di riforma dell’assistenza che ha sancito la separazione tra le attività di programmazione, gestione e produzione dei servizi. Con la definitiva istituzionalizzazione (Fazzi, 2022) il welfare mix all’italiana, nella sua complessità (Ascoli e Ranci 2002), ha basi territoriali, si avvale della programmazione sociale partecipata quale strumento di governo del welfare locale e di un “quasi-mercato” (Le Grand, Bartlett, 1993) dei servizi sociali per la produzione di servizi, tramite i dispositivi del contracting out e dell’accreditamento. Questi strumenti di regolazione prevedono una rigida definizione a livello di contenuti che i fornitori sono tenuti a garantire e l’accentuazione della competizione [economica] per l’assegnazione dei finanziamenti pubblici.

Dalla terzietà alla triangolazione: redistribuzione dei rischi

Osserviamo, tramite un breve inciso, la natura “sui generis2 di questo mercato, in cui quantità di domanda [sociale] e di offerta non variano sulla base del prezzo: ciò che cambia sono gli aggiustamenti che si possono fare sulla seconda, mediando tra qualità e quantità. In un settore labour intensive e a bassa produttività, è legittimo domandarsi se non sia proprio la “convenienza” rappresentata da cattive condizioni occupazionali a rappresentare un fattore di successo per stare su questo mercato (Dorigatti e al., 2024). Le norme che regolano il funzionamento del public procurement presentano il vantaggio per la Pa di acquistare esclusivamente la quantità di lavoro necessaria per garantire la produzione di servizi, secondo logiche altamente prestazionali, per periodi di tempo limitati (la durata degli appalti), secondo i criteri definiti dalle regolamentazioni in materia. Ciò conduce alla disconnessione tra l’oggetto di acquisto dell’appalto - ore di servizio necessarie per la produzione del/i servizio/i in oggetto e/o unità di lavoro corrispondenti a figure professionali dotate di determinate competenze, individuati con il ricorso a parametri quantitativi e standardizzati – e i “lavoratori in carne d’ossa” che svolgono le attività oggetto dell’acquisizione e che diventano pertanto “invisibili”. La definizione delle condizioni contrattuali di coloro che svolgeranno in concreto le attività sono di pertinenza dei soggetti aggiudicatari, demandando alla relazione tra soggetto aggiudicatario/lavoratore la definizione delle modalità contrattuali sia a livello di qualità, che di quantità (effettivo numero di lavoratori coinvolti) compatibili con i fabbisogni di forza lavoro previsti dal contratto di appalto. Nel rapporto triangolare che si viene a creare tra attore pubblico, datore di lavoro privato e lavoratori la qualità delle relazioni contrattuali che si sviluppano fra autorità pubbliche e soggetti privati (Dorigatti, 2017) e il ruolo esercitato dagli enti di rappresentanza (Burroni, Scalise 2017; Mori, 2019) risultano un fattore esplicativo importante delle dinamiche di procurement che caratterizzano i differenti comparti, in altrettante aree territoriali.

Tra austerità e concorrenza

Il deciso processo di “contrattualizzazione” (Lori, Pavolini, 2016) dei rapporti tra soggetto pubblico e soggetti dell’economia sociale, esposti a sempre maggiori forme di dipendenza, a fronte di dinamiche di partecipazione delle imprese sociali alla programmazione sociale episodiche e poco incisive (Bifulco, Facchini, 2015) hanno ostacolato, su scala nazionale, lo sviluppo di un sistema integrato e democraticamente partecipato. A meno di un decennio dall’approvazione della legge di riforma, il cataclisma sociale della crisi economica e finanziaria e l’avvio delle politiche di austerità, che in combinazione con la mancata individuazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) ha acuito la forte disomogeneità nelle prestazioni e nei diritti esigibili da parte dei cittadini, sia a livello regionale che comunale, a fronte a una domanda sociale che in costante espansione in quantità e qualità. Su questo sfondo, le ambivalenze della sussidiarietà orizzontale, tra sostegno a un’azione pubblica territorializzata e democratica o strumento di delega al settore privato della produzione di servizi di rilevanza collettiva in nome del taglio della spesa pubblica assumono differenti connotazioni a livello regionale, tra approcci concorrenziali di tipo mercatistico e modelli collaborativi di tipo universalistico, che esprimono e riproducono specifiche visioni del rapporto tra attore pubblico e cittadinanza (Monteleone, 2007; Bifulco, 2019).

Le ambiguità irrisolte sopra richiamate sono state rafforzate dalle evoluzioni delle regole del public procurement, in base alle quali, in linea con le direttive comunitarie[2], la produzione di servizi legati al godimento di diritti sociali fondamentali entra appieno nella sfera delle logiche di mercato, con il rischio concreto di esasperare una situazione già di per sé problematica. Non c’è lo spazio per passare in rassegna nel dettaglio il tortuoso cammino di definizione della più recenti regole in materia di contratti pubblici, alla luce delle contese tra diversi livelli istituzionali[3].

L’altro lato della medaglia di queste dinamiche riguarda un aspetto a lungo rimasto in ombra: le criticità riguardanti le condizioni di lavoro nel settore no profit coinvolti nei servizi esternalizzati (Busso, Guargiulo, 2016).

Le condizioni di lavoro nella cooperazione sociale, alcune evidenze

Le traiettorie di trasformazione dell’architettura istituzionale degli ultimi 20 anni e i meccanismi di produzione e funzionamento dei servizi di rilevanza collettiva hanno favorito la diffusione di pratiche di disconnessione dal lavoro (Barbera et al., 2016; Dagnes, Salento, 2022) e di strategie estrattive anche nel settore di produzione di servizi sociali, che, pur manifestandosi in modo non omogeneo, attraversano territori, sottosettori e organizzazioni coinvolte. Le operazioni di cost cutting più agevoli e significative, accompagnate perlopiù da una ridefinizione degli obiettivi di produzione di beni e servizi secondo logiche prestazionali e di rigida standardizzazione per rispondere a obiettivi di riduzione dei costi sono quelle che hanno riguardato la forza lavoro. A farne le spese sono stati in primo luogo i lavoratori e, di conseguenza, coloro cui i servizi sono rivolti.

Queste dinamiche hanno comportato la ricomposizione delle diverse componenti del welfare italiano in più direzioni: riduzione del numero delle istituzioni pubbliche nel settore sanità e assistenza e costante contrazione del personale occupato presso pubblica amministrazione ed enti locali, accelerata dai vincoli del Patto di stabilità interno a partire dal 2008: tra il 2000-2011 si registra una riduzione di enti pari a -20% e a -3,2%, (- 3500 enti) nel periodo 2011-17, in specifico nel settore sanità e assistenza sociale (-4,2%); sia di personale assunto a tempo indeterminato, a favore dell’incremento (oltre +90%) di personale non dipendente, in specifico nel settore della sanità e assistenza sociale (Istat 2014; 2019). Dall’altro lato alla diminuzione delle risorse economiche per finanziare il welfare sociale e la costante contrazione dell’incidenza di interventi sociali gestiti ed erogati direttamente dagli enti locali e speculare incremento delle esternalizzazioni di servizi di rilevanza collettiva (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2021).

A queste dinamiche ha corrisposto un incremento dei dipendenti delle organizzazioni dell’economia sociale, soprattutto nel settore della sanità e dell’assistenza sociale in cui si concentrano le organizzazioni più grandi e il maggior numero di dipendenti (circa il 60% dei lavoratori del settore non profit (oltre 505mila lavoratori) (dati riferiti al 2018, Istat, 2020), in un contesto contraddistinto dalla storica dualizzazione tra regolamentazione del mercato del lavoro pubblico e privato (Emmenegger 2011).

Circoscrivendo lo sguardo alla cooperazione sociale, tra il 2003 al 2017 il numero delle cooperative sociali in Italia aumenta del 186% (tra il 2005 e il 2011 +34%; tra 2011 e 2017 +28%). Nel 2022 le cooperative sociali in Italia sono 14.488 per un totale addetti pari a 472.032, di cui 346 795 nel settore Sanità e assistenza sociale (Istat, 2024). Da questi dati si registra un fenomeno di fusione in organizzazioni di grandi dimensioni, considerando che oltre il 40% è occupato in organizzazioni che hanno più di 250 dipendenti, (oltre 250 dipendenti, che rappresentano il 2%), oltre un terzo (33%) in organizzazioni con un numero di dipendenti tra 50 e 249, il 20% in cooperative sociali più piccole (10-49 dipendenti) e infine solo il 6% in micro-cooperative (0-9 dipendenti).

I dati economici e finanziari mostrano la rilevanza dei settori dell’assistenza sociale e della sanità, che hanno generato il 69,9% del valore totale della produzione. Nel 2011 oltre il 65% del reddito era generato da contratti con la PA. Se invece si adotta il criterio delle attivazioni, secondo i dati Inps del 2021 (Euricse 2023) le cooperative sociali hanno al proprio attivo 640mila posizioni lavorative (di cui 477mila nel settore sanità e assistenza sociale e poco meno di 36mila nel settore dell’istruzione), di cui poco meno di 37mila riguardavano soggetti svantaggiati.

 

Prima di entrare più da vicino nel merito, una considerazione di cornice. Si tratta dell’interdipendenza tra visibilità del tema dal punto di vista sia delle informazioni disponibili e attenzione nello spazio pubblico, aspetti che si alimentano. Le condizioni di lavoro e la qualità del lavoro nelle imprese e nelle cooperative sociali non rappresentano un tema di grande rilevanza nella letteratura sociologica e le evidenze empiriche non abbondano (Dorigatti et. al. 2024). Ciò è tanto più grave poiché ogni forma di azione pubblica su un qualsiasi tema incorpora [o meno] specifiche basi informative (IBJJ - “basi informative di giudizio in termini di giustizia”, Sen 1990, 111) che stabiliscono ciò che è pertinente e ciò che non lo è, discriminano tra esperienze significative ed esperienze non rilevanti, determinano chi (i soggetti) e cosa (le materie) contribuiscono alla formazione delle decisioni nello spazio pubblico e ciò che ne è escluso (Borghi, Giullari, 2015; Giullari, De Angelis, 2019; Mozzana, 2019).

Nel nostro procedere occorre tenere conto di questo fondamentale aspetto, anticipando che le argomentazioni di seguito fanno riferimento ad alcuni lavori recenti sul tema[4].

Anche in ragione di quanto appena affermato, è obbligo premettere che quello del lavoro nella cooperazione sociale rappresenti un mondo eterogeneo, con grandi differenze a livello territoriale; ciononostante da tempo si evidenzino tendenze inequivocabili di disagio tra i lavoratori delle imprese sociali, che, da qualche tempo, non di rado hanno come esito l’abbandono del settore (Giullari, De Angelis, 2024; Caselli et al. 2024). Per le ragioni già richiamate, le aspettative sulla qualità del lavoro nelle cooperative sono normalmente positive, potremmo dire date per scontate; per questo motivo si è riscontrato a lungo una sorta di ritrosia da parte della letteratura sull’economia sociale ad affrontare l'evidenza delle cattive condizioni di lavoro in queste organizzazioni; nonostante la mancanza di informazioni sistematiche e complete sulle condizioni di lavoro nella cooperazione sociale, gli studi esistenti descrivono un quadro molto complesso.

Verso uno sguardo intersezionale alla qualità del lavoro nelle cooperative sociali dei servizi esternalizzati

In linea con quanto fino a ad ora osservato il tentativo è ora quello di mettere in luce le interconnessioni e interrelazioni tra molteplici divari e altrettante responsabilità che complessivamente, in un gioco di reciproca determinazione, danno conto della qualità delle condizioni di lavoro nelle organizzazioni appartenenti all’economia sociale coinvolte nelle esternalizzazioni di servizi.

Come richiamato nella prima parte di questo contributo, la lettura delle condizioni di lavoro nelle cooperative sociali deve essere fatta da un lato alla luce di alcuni elementi di sottofinanziamento strutturale, processi di riorganizzazione e parziale ridimensionamento dello stato sociale, crescente commercializzazione della fornitura di servizi; dall’altro considerando la comune (lavoratori del settore pubblico e privato) appartenenza a un ambito storicamente affetto da fragili condizioni occupazionali, in letteratura definite care penalty (Folbre, Smith, 2017; Müller, 2019), sui cui grava uno svantaggio prima di tutto salariale, riconducibile anche alla preponderante presenza femminile, sotto forma di gender pay penalty (England et al. 2002). Su questo sfondo di criticità si staglia la complessità di elementi che nelle pratiche di esternalizzazione di servizi di rilevanza collettiva conducono a una ulteriore contrazione dei livelli salariali, all’indebolimento o smantellamento delle tutele del posto di lavoro, al limitato accesso agli istituti di sicurezza sociale, alla crescente flessibilizzazione numerica, oraria e organizzativa del lavoro, alla discontinuità occupazionale, all’aumento dei carichi di lavoro. Ciò produce disuguaglianze lungo più cleavages: tra settore pubblico e settore privato e tra comparti della cura, a livello di sicurezza, stabilità del lavoro, orari e carichi di lavoro, a parità di figura professionale.

Si tratta di evidenze confermate dal quadro attuale dal quale emerge come nelle cooperative sociali in Italia (Euricse, 2023) in cui opera una molteplicità di figure professionali (educatrici, pedagogiste, operatrici sociosanitarie, progettiste, assistenti sociali, etc.) in una vasta gamma di campi (servizi alla disabilità, infanzia e adolescenti, immigrazione, salute mentale, anziani, etc.) e relativi servizi (residenziali, domiciliari, comunità, integrazione scolastica, etc.) prevalga la componente femminile degli occupati, pari al 74%; basse retribuzioni: l’imponibile previdenziale medio per lavoratore equivalente full-time impiegato presso una cooperativa sociale (tra i quali sono prevalenti i soci-lavoratori) è pari a 22.652 euro (il più basso nel mondo cooperativo, il cui valore medio è pari a 26.254, mentre la retribuzione media del 2021 è pari a 34.310 euro). Da sottolineare infine che i dati aggregati forniti da INPS riferiti all’intero mondo cooperativo, registrano valori imponibili retributivi più bassi delle lavoratrici (rispetto ai lavoratori), dei lavoratori di cittadinanza extra-europea, dei lavoratori under 30; un’incidenza del lavoro a tempo indeterminato pari al 66,2%, la quota inferiore nel mondo cooperativo, ad esclusione di quello agricolo, notoriamente caratterizzato dal lavoro stagionale; il ricorso abnorme a contratti part-time time (pari al 71,4%, l’incidenza più elevata anche in riferimento al mondo cooperativo e in assoluto); la diffusione di queste due forme di lavoro non standard rappresentano l’offerta di lavoro “su misura”, pari alla durata del servizio acquistato dalla PA nel corso dei 12 mesi[5] e per assicurare la presenza di figure jolly destinate a compensare periodi di riposo, ferie, malattie, etc. , in modo da assicurare la costante copertura dei servizi, come da capitolati di appalto (Caselli et al. 2021). Inoltre, non di rado, si ricorre a forme di self-employment per supplire ai picchi lavorativi con la creazione di lavoratori di riserva e il mantenimento di salari contenuti.

Dal punto di vista contrattuale, rileva la pluralità dei contratti collettivi applicati, compresi quelli stipulati al ribasso rispetto a quelli considerati già ampiamente insoddisfacenti sottoscritti dalle organizzazioni di rappresentanza più rappresentative. Le differenze tra i contratti possono essere significative e tra i rischi maggiormente diffusi vi è quello del sotto-inquadramento rispetto al titolo di studio, l’omologazione di ruoli professionali molto diversi negli stessi livelli contrattuali, inquadramento di una parte significativa dei lavoratori in livelli contrattuali medio-bassi.

Un altro elemento che incide in modo decisivo sulle condizioni di lavoro ha a che fare con sia con l’organizzazione del tempo di lavoro, sia con il suo riconoscimento economico. Flessibilità oraria e cambio sistematico della durata dei turni di lavoro (che sovente si svolge in luoghi differenti nel corso di una giornata) per ciò che riguarda il primo aspetto; utilizzo della “banca-ore” (che consente di ridurre il costo del lavoro extra-orario), riconoscimento economico nullo o parziale del tempo impiegato negli spostamenti da un luogo di lavoro all’altro, ma anche del tempo utilizzato in incontri organizzativi, passaggi di consegne tra un turno e l’altro etc., obbligo di “reperibilità”, obbligo di effettuare le cosiddette “notti passive” (che sovente prevedono riconoscimenti economici irrisori o nulli). Così come è prassi retribuire i lavoratori sulla base dell’effettiva presenza dei beneficiari dei servizi (è il caso, ad esempio, delle assenze per malattia o delle vacanze estive nel settore socioeducativo). Ritmi di lavoro scanditi dal variare dei flussi di beneficiari dei servizi, con una intensificazione crescente. E ancora incertezza sulla continuità dell'impiego - subordinata al rinnovo del contratto con gli enti pubblici - frequenti ritardi nel pagamento degli stipendi. A questo proposito occorre evidenziare come le clausole sociali previste dalla normativa e recepite dai principali Ccnl “proteggano” i lavoratori dall’insicurezza derivante dai cambi di assegnazione dei diversi servizi. Si tratta però di una protezione parziale, perché il meccanismo che prevede l’assunzione del personale precedente non è automatico e l’efficacia della norma dipende dall’effettiva capacità delle organizzazioni sindacali di vigilare. In ogni caso le tutele contrattuali, anche quando la garanzia del posto di lavoro viene rispettata, sono dipendenti dalle condizioni del nuovo contratto, con i rischi sopra richiamati: differenze rispetto al monte ore, agli scatti di anzianità, al luogo di lavoro ecc. tanto è vero che i dati disponibili in proposito segnalano una significativa tendenza a “seguire” la propria cooperativa sociale appalto dopo appalto, cambiando contesto lavorativo e talvolta mansioni; disagio preferibile al continuo cambio di datore di lavoro, prassi organizzative, etc. (Giullari, Lucciarini, 2023).

 

Autonomia, voice, dimensione relazionale

 

Un ulteriore insieme di aspetti indagati riguarda i livelli di attribuzione di responsabilità e autonomia organizzativa e la “possibilità di esprimere il proprio punto di vista” sul luogo di lavoro. A questo proposito solleva più di un interrogativo la profonda insoddisfazione che emerge rispetto alla autonomia organizzativa (70% dei rispondenti) e alla partecipazione alle decisioni aziendali (93%) dei lavoratori di cooperative sociali coinvolti in altrettante recenti indagini (ivi; cfr. su questo aspetto Dorigatti et al. 2024; WhoCares 2022). Così come emerge il fatto che a giudizio dei medesimi lavoratori il processo di esternalizzazione ha compresso la capacità dei lavoratori delle cooperative di stabilire il proprio salario con l'appaltatore o di controllare il proprio carico di lavoro, dovendo rispettare i termini dell'offerta. Testimonianze simili emergono tra i lavoratori che hanno partecipato all’inchiesta Whocares realizzata dal Collettivo WhoCares Bologna (2022): l’81% delle lavoratrici è dell’opinione che il proprio lavoro sia svolto rispondendo a criteri di economicità, e solo il 47% ritiene che la propria opinione o esperienza sia debitamente tenuta in considerazione (ivi, p. 25).

Le indagini richiamate mettono poi in luce come non sia scontato, presso le proprie organizzazioni, fruire di opportunità di formazione e aggiornamento sul luogo di lavoro, né di potere contare su adeguati spazi di supervisione, strumento ritenuto essenziale per supportare lo sforzo psico-fisico che le attività della cura comportano. A questo proposito è significativo il dato che emerge dalla più recente inchiesta della Fondazione Di Vittorio (De Angelis, 2024) secondo cui oltre una lavoratrice del settore della cura su cinque opera in condizione di disagio psico-sociale (dato superiore alla media degli intervistati), in linea con quanto emerge dall’inchiesta del Collettivo WhoCares.

Le ricerche mettono altresì in luce come i lavoratori delle cooperative sociali sostengano con forza l'utilità sociale del proprio lavoro, testimoniando un elevato livello di impegno che quotidianamente si cerca di costruire tramite il proprio operato, in dialogo costante con la tensione etico-politica del lavoro sociale che ha modellato l’autorappresentazione delle professioni sociali e la loro percezione pubblica (alimentata anche dalle dinamiche di espansione dell’economia sociale) (Castellini, 2021), cui corrisponde la percezione di un inadeguato riconoscimento economico e sociale e men che meno all’interno delle proprie organizzazioni, compreso l’adeguato riconoscimento delle professionalità, né di saperi e competenze maturati nelle pratiche lavorative; l’altro lato della medaglia è la diffusa consapevolezza che le critiche condizioni organizzative e i carichi di lavoro siano un grave impedimento a rispondere adeguatamente alla domanda sociale di riferimento. In modo speculare, la dimensione relazionale riveste una rilevanza cruciale, in quanto intrinseca alle attività svolte, ma anche degli aspetti preponderanti rispetto alla soddisfazione, laddove sono le relazioni con i destinatari dei servizi e in parte con i colleghi tra gli aspetti fonte di maggiore apprezzamento rispetto alle proprie condizioni lavorative (Giullari, Lucciarini, 2023).

Tra disallineamenti e autosfruttamento

Nei lavori di ricerca che hanno indagato le condizioni di lavoro nelle cooperative sociali coinvolte nei servizi esternalizzati un ulteriore elemento di attenzione riguarda gli effettivi spazi di esercizio di quegli spazi di autonomia e discrezionalità - propri della Street-Level Bureaucracy (Lipski, 1980) che questi lavoratori rappresentano – difficili da coniugare a fronte di un generalizzato rafforzamento di forme di supervisione manageriale; con la misurazione standardizzata delle performance prescritte dalle necessità di rendicontazione proprie dei rapporti di esternalizzazioni; così come forte è la pressione esercitata dalla razionalizzazione delle risorse che rende necessaria una selezione più stringente dei potenziali beneficiari, all’insegna di un welfare disciplinante, della declinazione workfaristica delle politiche di attivazione e in ultima istanza del legame tra lavoro ed emancipazione, elemento qualificante la nascita delle imprese sociali fin dalle origini. Tutto ciò produce disallineamento (Esposto et al.2019) tra i diversi mandati professionali e a sua volta sofferenza e strategie individuali di risposta (con i rischi di “privatismo” sempre all’erta): dal ripiegamento su un supporto meramente relazionale, a forme di micro-resistenza, difficili da sostenere sul medio-lungo periodo e dunque fonte di sofferenza e disagio (ivi; WhoCares, 2022). A questo proposito si apre la questione fondamentale della rappresentanza e dell’azione collettiva, nodo cruciale, ma anche nota dolente. Da un lato la difficoltà delle forme di rappresentanza istituzionali a cogliere le istanze di questi lavoratori (Giullari, Lucciarini, 2023), così come è altrettanto difficoltoso organizzare forme di azione collettiva all’interno dei contesti di lavoro (Laboratorio Welfare pubblico) a causa di una molteplicità di questioni, tra le quali vale la pena sottolineare il differenziale di agency tra i lavoratori (sulla base di anzianità lavorativa, cittadinanza, età, responsabilità familiari e così via). È così che “autosfruttamento” e responsabilizzazione, a fronte di una debole o nulla capacità decisionale, sono il carburante di cui si alimenta il meccanismo delle esternalizzazioni. Quest’ultimo punto merita uno specifico rilievo poiché l'etica professionale è una delle leve attraverso le quali i datori di lavoro si appellano per giustificare e normalizzare salari scadenti quale parte integrante del lavoro di cura, e/o intensificare i carichi di lavoro (WhoCares 2022; Castellini, 2021; Dorigatti et al. 2024; Laboratorio Welfare pubblico). Le testimonianze a questo proposito richiamano il delinearsi di forme di vere e propria “servitù delle passioni” (Busso, Lanunziata, 2016), che si esprime sui luoghi di lavoro tramite un lessico che anziché parlare di democrazia ed emancipazione, elementi che [dovrebbero] distinguere il mondo della cooperazione, utilizza quello dell’oppressione familista e del paternalismo (Dorigatti et al. 2024). In sostanza, dagli elementi fin qui sinteticamente evidenziati emerge la qualità del lavoro come fenomeno sociale complesso, la cui analisi necessita di combinare elementi che riguardano le condizioni strutturali e relative ricompense estrinseche (contrattuali, salariali, delle tutele, etc.), con elementi che riguardano la soddisfazione (e relative ricompense intrinseche), nella consapevolezza che si tratti di fenomeni interdipendenti e rispetto ai quali è indebita ogni presupposizione di compensazione o sostituzione (ivi; Giullari, De Angelis, 2024).

Uguali, ma diversi…

Ed infine un’ultima questione che ci aiuta a riassumere il senso di quello che abbiamo visto fino a qui e avviarci alla chiusura. Le evidenze che emergono da analisi condotte sulle condizioni di lavoro nelle cooperative sociali (Mori, 2017; Dorigatti, 2017; Giullari, Lucciarini 2023) ci consentono di fare luce sul divario tra condizioni di lavoro che origina dall’appartenenza organizzativa e dunque dallo status di dipendenti diretti/indiretti. Le strategie di esternalizzazione determinano infatti la coesistenza, nel sistema territoriale integrato di servizi e interventi sociali, di lavoratori diretti e indiretti che condividono mansioni e compiti, tutti ugualmente essenziali per garantire i diritti di cittadinanza, pur nei limiti noti, ma non le medesime condizioni di lavoro, laddove è l’appartenenza organizzativa - in seno alla pubblica amministrazione o all’economia sociale – a rappresentare il discrimine rispetto alla qualità delle condizioni di lavoro come fenomeno composito: come sopra osservato, per cogliere la qualità delle condizioni di lavoro occorre combinare aspetti strutturali e soggettivi, in un gioco non a somma zero.

Note di chiusura

Abbiamo aperto questo lavoro richiamando alcune questioni che interrogano la “scommessa” impresa sociale dalle origini, adottandone una visione secondo cui l’essenza non risiede esclusivamente nella peculiare natura giuridica e nella configurazione organizzativa, né la collocazione formale tra stato e mercato, piuttosto nelle potenzialità di attivare processi, pratiche e strategie di “intrapresa collettiva di costruzione sociale”, per la messa in visibilità di materie e beni comuni e la realizzazione di fatto di diritti. Un’impresa che è sociale per la tensione a declinare la relazione tra economia e società a sostegno della prima, in cui il lavoro gioca un ruolo di primo piano, superandone un’accezione propria del produttivismo di stampo economicistico, ma quale fattore di emancipazione e al servizio della [ri]produttività sociale.

Lo sguardo, non certamente esaustivo, per le ragioni ricordate, sulle condizioni di lavoro degli operatori impiegati nelle cooperative sociali che operano nei servizi sociali territoriali, in regime di esternalizzazione, ha evidenziato i rischi concreti di declinazioni riduzionistiche e privatistiche del costrutto di impresa sociale, quando tende a coincidere esclusivamente con la propria natura giuridica (cooperazione sociale) e/o il comparto produttivo (servizi sociali); e quando, pur formalmente non orientata al profitto, rappresenta, troppo spesso, la chiave di volta per l’esercizio di pratiche estrattive nei confronti del lavoro e ragione della propria esistenza e persistenza; ciò con la corresponsabilità di un attore istituzionale che agisce in qualità di contract manager, in una complessiva irresponsabilità pubblica nei confronti degli operatori sociali e dei destinatari dei servizi e in più in generale nei confronti del processo collettivo che rende disponibili i beni di cittadinanza.

Di fronte a condizioni di lavoro sempre più insostenibile, all’origine di inediti processi di impoverimento del lavoro sociale, condizioni organizzative che quotidianamente ostacolano la possibilità di mettere in campo la dimensione etica intrinseca al lavoro di cura necessaria per una “buona” cura, i divari tra lavoratori diretti e indiretti per non citare che alcuni degli elementi emersi, stanno accelerando movimenti di abbandono e di riposizionamento di significative proporzioni, da leggere come ricerca di condizioni migliori e dunque fonte di ulteriori diseguaglianze tra lavoratori con posizioni di partenza diverse (Caselli et al. 2023; Giullari, de Angelis 2024).

In sintesi, il quadro che abbiamo provato a tratteggiare, pur nella complessità degli elementi in gioco, che si dispiegano su diversi piani e livelli, ci restituisce un’immagine che richiama l’esigenza di ricomporre prima di tutto i divari tra lavoratori, a partire da quello tra lavoratori diretti e indiretti, [ri]portando nell’ambito di un'unica fattispecie contrattuale, quella del pubblico impiego, ad esempio, tutti coloro che operano nell’ambito della funzione pubblica, indipendentemente dall’appartenenza organizzativa; in questo modo ci sarà lo spazio perché a fare la differenza siano le pratiche e le strategie di “intrapresa di costruzione sociale” (coinvolgendo le istituzioni e i diversi attori presenti sui territori, favorendo apprendimento istituzionale e costruzione di saperi) e non la qualità delle condizioni di lavoro.

L’attuale irresponsabilità collettiva nei confronti del lavoro nell’economia sociale fa leva, anche, su forme di ignoranza epistemica (Galletti, 2020) come forma di esercizio del potere: dalle diverse posizioni occupate, altrettanti attori sociali (all’interno e nell’ambiente esterno all’economia sociale) si permettono di ignorare bisogni e condizioni perché ritenuti non esistenti, non rilevanti o giustificati e legittimi. A questo proposito tra le azioni più urgenti quella di proseguire sulla strada della conoscenza delle condizioni di lavoro nell’economia sociale, dal punto di vista quanti-qualitativo, tramite la raccolta sistematica di informazioni, oggi totalmente carente; di partire dalle aule universitarie nelle quali dovrebbe trovare spazio la possibilità che la costruzione delle professionalità vada di pari passo con la costruzione di consapevolezza sui diritti del lavoro e sulla qualità delle condizioni di lavoro; così come non meno essenziale è la costruzione di alleanze[6] tra mondo della ricerca e mondo del lavoro sociale, i cui confini sono peraltro spesso spuri, per sostenere la “presa” di voce del lavoro sociale e l’azione collettiva.

 

DOI: 10.7425/IS.2024.02.04

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[1] Come già proposto altrove (Caselli, Giullari, 2022; Giullari, Lucciarini 2023), si ritiene importante affrontare la questione della qualità del lavoro nelle imprese sociali collocandolo nell’ambito del più ampio settore della cura. Le attività riconducibili al lavoro di cura rappresentano un insieme eterogeneo riconducibile al settore della sanità, dell’educazione, dell’assistenza sociale. Gli attori coinvolti sono il settore pubblico, gli attori del mercato, del Terzo settore, le famiglie (ILO 2018).

[2] Cfr. Direttiva europea 2014/23/Ue.

[3] Per un approfondimento sia consentito rimandare a Caselli et al., 2021; Giullari, Lucciarini, 2023.

[4] Senza pretesa di esaustività, le considerazioni di seguito fanno prioritario riferimento a Caselli, D., Giullari, B., Whitfield, D. (2019), Esposto et al. (2019); Castellini, (2021); WhoCares (2022); Laboratorio Welfare (2023); Giullari, Lucciarini (2023); Dorigatti et al. (2024); Caselli et al. (2024); Giullari, De Angelis (2024).

[5] Nel caso, ad esempio, dei servizi socioeducativi coincidenti con la durata dell’a.s.

[6] A questo proposito sia consentito il riferimento a un’esperienza collettiva “Laboratorio Welfare pubblico” che da un paio di anni rappresenta uno spazio di riflessione e di azione tra persone che lavorano a diverso titolo nel welfare (chi nei servizi, chi in enti di ricerca, accademici e non.

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