14  DICEMBRE 2019
 
Risorse, condizioni e vincoli all'imprenditorialità sociale: dinamiche e potenzialità nell'area torinese

Risorse, condizioni e vincoli all'imprenditorialità sociale: dinamiche e potenzialità nell'area torinese

Abstract

L’articolo propone un’analisi delle principali tendenze che caratterizzano l’evoluzione recente dell’imprenditorialità sociale nell’area torinese. Grazie all’approfondimento di alcune esperienze eccellenti che riguardano la sanità, l’economia carceraria e lo sviluppo di comunità, lo studio riformula il principio di sussidiarietà in chiave territoriale. Ciò consente di stimolare una diversa relazionalità tra le persone coinvolte in queste iniziative, avviando una nuova stagione di innovazione istituzionale.

L’analisi che segue (di cui ovviamente la responsabilità è del solo autore) si avvale di elementi resi disponibili dalla cortesia dell’Osservatorio sull’economia civile Comitato imprenditorialità sociale della Camera di commercio di Torino. Ringrazio Aldo Romagnolli, Pierluigi Ossola e Gabriella Crusco per l’assistenza e gli stimoli; Piero Parente (Cooperativa sociale Ecosol, Liberamensa), Marco Trabaldo (Cooperativa sociale Gruppo Arco), Isabella De Vecchi e Silvia Cordero (Associazione Miravolante), che si sono resi cordialmente disponibili per interviste e documentazione. L’arco temporale delle osservazioni si arresta all’aprile 2012.


The article presents an analysis of the major trends that characterize the recent evolution of social entrepreneurship in the Turin area. Thanks to the analisys of some good practices in the fields of health services, work integration of prisoners and community development, the study allows to reformulate the principle of subsidiarity from the point of view of the territory. This allows to stimulate a new network of relations among the people involved in these initiatives, initiating a new era of institutional innovation.

 

Considerazioni introduttive

 

Il mutamento sociale

Analizzare le condizioni che consentono la formazione e lo sviluppo di attori adeguati per l’innovazione sociale vuol dire affrontare la questione sollevata a suo tempo da Filippo Barbano (Barbano, 1982 - p.27), quando osservò che il mutamento è il “vero punto critico delle scienze sociali oggi”. Barbano invitava allora le scienze sociali ad accompagnare, con i propri quadri teorici e strumenti analitici, un mutamento che dispiegasse una “terza possibilità”, fra il protagonismo dei grandi attori della trasformazione macrostorica e le mobilizzazioni subite delle rivoluzioni passive. A questo compito dovrebbe adoperarsi una sociologia che non restringa ex ante le possibilità dell’azione sociale alle condotte individuali chiuse nei modelli della scelta razionale, ma riconosca la storicità dinamica degli attori, e ne promuova le potenzialità di cultura, progetto e innovazione sociale. Formare tali soggetti sociali, rigenerarli se la dinamica storica li abbia logorati, sostenerne lo sviluppo, è esigenza su cui vengono a incontrarsi oggi correnti ideali di molteplice estrazione: dalla tradizione tocquevilliana dell’associazionismo civile, al neocomunitarismo degli anni ‘80 e ‘90, dalla tradizione europea del socialismo pluralista ed associativo (Hirst), alla cultura societaria, che anima una parte significativa del terzo settore. Per vie anche molto diverse, l’attenzione sembra convergere nella prospettiva di un modello sociale innovativo, che sappia integrare i valori di solidarietà e tutela collettiva con i valori di competizione ed efficienza produttiva, ritessendo i fili usurati e dispersi della connettività sociale.

Il rapporto con gli attori sociali assume importanza decisiva, soprattutto se si ritiene che l’innovazione sociale debba porre in questione: convenzionali esclusività (il mercato capitalistico sarebbe il solo settore che ha strutture, meccanismi e incentivi atti a guidare l’innovazione?), tradizionali contrapposizioni (politica ed economia, pubblico e privato, istituzioni formali ed aree informali), competenze separate presenti in ambiti societari distinti. Solo se riesce ad attraversare confini preordinati e a favorire ibridazioni e interdipendenze fra attori, persone, idee e risorse, l’innovazione sarebbe in grado di incidere su un’ampia gamma di prassi e comportamenti, generando cambiamenti di portata sistemica. In tale processo può accadere che risorse maturate e fissate nelle storie precedenti dei soggetti individuali e collettivi e consolidate in un capitale esperienziale e di conoscenza acquisito e disponibile, vengano a sincronizzarsi con implicite esigenze di sistema, generando una creatività originale, che cresce per apprendimenti successivi e sarebbe difficile da ottenere con l’applicazione di schemi di intervento di tipo sinottico1 (Murray, Caulier-Grice, Mulgan, 2010). Come Hirschman ha mostrato, tuttavia, la disponibilità alla partecipazione attiva al cambiamento sociale segue cicli che oscillano in dipendenza dagli andamenti macrostorici, e passano da momenti di forte presenza e intensa attivazione, in cui individui gruppi e movimenti rivendicano spazi ed operano per perseguire beni pubblici e interessi generali, a momenti di ripiegamento e chiusura nelle cerchie ristrette degli interessi individuali e privati. In quale di queste fasi del ciclo storico ci si trovi attualmente, è domanda non priva di rilevanza per chi vuole declinare l’imprenditorialità sociale riferendola a modalità innovative nella produzione di beni e servizi.

 

Innovazione ed articolazioni del terzo settore

Ciò sembra valere in particolare per quelle iniziative originate nel terzo settore e nella società civile, che non si limitano a reagire ai fallimenti del mercato e dello Stato nel soddisfare i bisogni umani, ma si auto-propongono come fattore propulsivo e generatore di un’autonoma dinamica di cambiamento. Il criterio dell’innovazione deve confrontarsi con una classica rappresentazione del terzo settore, che lo bipartisce in due segmenti principali: l’uno associativo (organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, associazioni famigliari ecc.) posto ai confini del mercato o ad esso esterno; l’altro imprenditoriale, popolato di attori (quali cooperative sociali e imprese sociali di altro tipo), che operano su mercati e quasi-mercati, attraverso forme di organizzazione stabile, produzione continuativa di prestazioni, gestione efficiente delle risorse2 (Avallone, Randazzo, 2010; Borzaga, Fazzi, 2011; Laville, La Rosa, 2009); con un segmento di raccordo e connessione fra i primi due costituito delle Fondazioni erogative ed operative3.

Se la partecipazione al mercato riferita alla generazione di “valore sociale aggiunto” comporta comunque una peculiare ibridazione di finalità solidaristiche e organizzazione imprenditoriale, che riduce il rischio dell’isomorfismo delle imprese sociali verso le imprese capitalistiche “pure” e le pubbliche amministrazioni4, sotto il profilo dell’innovazione il confronto fra “vecchie formule” di imprenditorialità sociale (Legge 381/91) e “nuove formule” (D.Lgs 155/2006) non si riconduce ad una modalità univoca, ma richiama differenti interpretazioni, presenti sia nel dibattito teorico che nella concreta esperienza.

A) Il richiamo genetico e fondativo all’universo del terzo settore solidaristico e volontaristico tende a considerare la spinta verso l’impresa sociale come una sorta di contrazione della carta identitaria costitutiva, e di allontanamento dai bisogni sociali in cui essa ha riconosciuto la sua matrice generativa. E’il modello della divaricazione identitaria; dove è da registrare tuttavia la diversa allerta fra le cooperative sociali di tipo A, che operano in prevalente riferimento al welfare pubblico, e quelle di tipo B, che assumono come riferimento non secondario una qualche competizione di mercato.

B) La formula dell’impresa sociale riprende ed estende, senza innovarlo sostanzialmente, il nucleo della precedente formula cooperativa: “le cooperative sociali non devono trasformarsi in imprese sociali: lo sono già nella forma più piena e matura” (Guerini in Borzaga, Zandonai, 2010 - p. 123). Una variante di questo modello della continuità confermativa si trova nell’idea dell’anticipazione pionieristica: “nella cooperazione sociale la realtà ha preceduto la norma, nell’impresa sociale può essere il contrario” (Moreschi e Zamaro in Borzaga, Zandonai, 2009 - p. 83)5.

C) L’impresa sociale oltrepassa in positivo il profilo della cooperazione sociale, e ne scioglie talune limitatezze ed incertezze originarie6, sicché restringere il concetto di impresa sociale alle sole cooperative sociali priverebbe la nuova formula della potenzialità espansiva che la caratterizza. E’ il completamento per trasformazione e differenziazione.

 

Il contesto torinese

Guardando ai profili che la cooperazione/impresa sociale è venuta assumendo nel contesto torinese (Marocchi, 2008), si osserva che nella città e provincia di Torino al 2005 si contavano 202 cooperative sociali (58% di tipo A, 36% di tipo B, 6% consorzi), con 11.760 addetti totali e 10.690 addetti retribuiti (Istat, 2005; Borzaga, Zandonai, 2005)7. Le 117 cooperative di tipo A avevano il 62% degli addetti retribuiti, nelle 71 cooperative B su 4.044 addetti retribuiti si contavano 1.739 lavoratori svantaggiati (35% disabili, 31% tossicodipendenti, 17% pazienti psichiatrici, 7% detenuti ed ex detenuti). Il valore medio della produzione si attestava a 1,428 milioni di euro per cooperativa, pressoché pari alla media del Piemonte, e superiore del 65% alla media italiana. La prevalenza complessiva delle entrate di fonte pubblica (71%) era dovuta soprattutto alle cooperative A (81% di entrate da fonte pubblica) e ai consorzi (77%); per le cooperative B il rapporto era meno squilibrato (57% a 43%). Il periodo di costituzione (36% ante 1991, 54% 1991-2000, 10% post 2000) mostrava la tenuta di un impianto che aveva la sua fase insorgente nel periodo antecedente alla legge 381, e lo sviluppo quantitativo maggiore negli anni Novanta, mentre la diversificazione successiva al 2000 non ha premiato in particolare la formula dell’impresa sociale8.

La tenuta del profilo solidaristico originario e la forte incidenza delle cooperative sociali sull’offerta del welfare locale viene confermata dalla tipologia delle attività prestate. Per le cooperative A esse sono nell’ordine: assistenza in residenze protette, ricreazione/animazione/educazione, accompagnamento e inserimento sociale, assistenza domiciliare, sostegno e recupero scolastico; vale a dire una tipologia di prestazioni che sono rivolte alle utenze consolidate del settore socio-assistenziale (anziani, disabili, minori e famiglie) e che forniscono agli enti gestori servizi domiciliari e territoriali di carattere socio-sanitario (per non autosufficienza, anziana e disabilità) e socio-educativo (per minori e famiglie)9. Il modello prevalente di relazione pubblico-privato non si pone perciò in funzione di supplenza o alternatività, tipico di quell’“effetto staffetta” - spesso teorizzato ma in pratica difficile da reperire - in cui il terzo settore subentra ad un settore pubblico in difficoltà; ma entro un principio di collaborazione, dove il pubblico ricorre al terzo settore per prestazioni che integrano i suoi interventi in ambiti specifici e completano il quadro complessivo della sua offerta. Vista in quest’ottica la cooperazione sociale nell’area torinese è ritenuta in linea con l’offerta presente nei grandi centri urbani in Italia, “dove è verosimilmente più elevata la domanda di servizi socio-sanitari ed educativi, nonché di attività finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate” (Mauriello e Sodini in Borzaga, Zandonai, 2009).

Una ricognizione analitica è stata condotta su tre casi torinesi, scelti su base reputazionale come esempi significativi di innovazione ed esterni al profilo prevalente dei servizi alla persona di contenuto socio-assistenziale ed educativo.

 

Il Polo produttivo carcere

Il primo caso, segnalato come di “eminente organicità” nel panorama italiano, concerne le 7 cooperative (tutte di tipo B e aderenti a Confcooperative), che operano all’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cotugno di Torino in zona nord Vallette. Il lavoro intramurario risponde alla “pena del non lavoro”, come fu definita a suo tempo la condizione carceraria da Luigi Berzano, riprendendo la distinzione fra pena “della” privazione di libertà e pena “nella” privazione della libertà. La Legge 354/75 che considera il lavoro come elemento del trattamento rieducativo (art.15, ex art.27 Cost.) prevede che le direzioni degli Istituti diano possibilità di lavoro, compatibilmente con le disponibilità logistiche e di sicurezza (istituto della cd. “s-consegna”, problemi di movimenti, liberi ed accompagnati, all’interno ecc.). Tale legge è stata alla base della firma, avvenuta nel 1999, del protocollo d’intesa fra DAP/Ministero Giustizia e cooperative, che ha generato un successivo accordo a livello regionale (PRAP e Confcooperative). Condizione ulteriore necessaria è stata l’assimilazione dei detenuti ai soggetti svantaggiati ex lege 381; condizione facilitante la previsione, introdotta dalla Legge 93/2000 (cd. Smuraglia), che consente uno sgravio fiscale per ogni dipendente assunto da impresa operante all’interno del carcere10. In questa cornice normativa e politica, si è inserita a partire dal 2000-01 l’iniziativa della Direzione del Carcere torinese di affiancare alla forma tradizionale del “lavoro ministeriale”, gestito dalla Direzione stessa per piccoli servizi funzionali all’andamento ordinario dell’istituto, delle attività di lavoro gestite da cooperative, con l’impiego di personale scelto fra i detenuti e remunerato a norma di CCNL11.

L’interesse della Direzione alla ridefinizione complessiva delle prassi e dell’immagine del carcere (“un carcere al lavoro”), allo studio (polo universitario), allo sport (squadra di rugby), alla scuola ecc., si è inizialmente incontrato con la proposta avanzata nel 2001 dalla cooperativa sociale Eta Beta (costituitasi fin dal 1987 con l’apporto di ex detenuti) di svolgere servizi di grafica ed informatica con il lavoro di detenuti all’interno del carcere. Il kick-off del Polo produttivo è stato tuttavia fornito dal bando avviato nel 2004 per una nuova gestione della cucina interna addetta alla preparazione pasti per i detenuti, che fin allora era stata gestita direttamente da detenuti ed agenti penitenziari; l’appalto - attivato al duplice scopo di ridurre i costi per l’amministrazione e incrementare l’occupazione dei detenuti - riguardava la confezione di pasti da parte dell’impresa vincitrice su materia prima alimentare fornita dall’amministrazione. Il bando fu vinto “con una offerta di 1,56 euro a giornata alimentare” dalla cooperativa sociale Ecosol, aderente al consorzio Kairòs12.

Ecosol, partendo dalla gestione dell’appalto interno per pasti a detenuti ed agenti, ha sviluppato la sua presenza produttiva nel carcere attraverso:

  • l’adeguamento strutturale ed ampliamento delle cucine (passate dagli iniziali 500 mq agli attuali 800);
  • l’ottenimento di autorizzazione sanitaria per predisporre servizi catering curati dalla cooperativa a beneficio di committenti esterni (enti pubblici, imprese, servizi congressuali ecc.). Le filiere di attività attuale includono un laboratorio di gastronomia, catering, pasticceria e pizzeria, dall’agosto 2011 di gelateria, e si prevede uno sviluppo riguardante la fornitura di pasti sui luoghi di lavoro (ordinazioni online) e consegna a domicilio;
  • l’incremento in numero e tipologia degli addetti: inizialmente 3 non svantaggiati (1 capocuoco e 2 cuochi) e 22 detenuti (confezionatori dei pasti), saliti a 5 non svantaggiati (in più 1 coordinatore amministrativo e 1 responsabile servizio catering) e 34 detenuti (22 confezionatori per l’interno, 8 produttori per l’esterno, 1 manutentore impianti e 3 addetti allo spaccio agenti, servizio nel contempo assunto dalla cooperativa). Le uscite dal carcere determinano un turnover che riguarda altre ulteriori 25 persone all’anno.
  • la gestione dello spazio-ritrovo interno per il personale.

 

Il sistema cooperativo nel Polo Carcere

L’ingresso in carcere delle diverse cooperative si può collocare tra il 2002 ed il 2007. Al 30 giugno 2010 il lavoro in carcere coinvolge 7 cooperative di tipo B, di cui 2 svolgono attività esclusivamente all’interno del carcere. Ecosol svolge attività sia a beneficio degli interni (mensa e spaccio per detenuti ed agenti) che per il mercato esterno, le altre cooperative lavorano in carcere esclusivamente per committenti esterni: Puntoacapo produce oggetti di arredo urbano e di gioco in laboratori di falegnameria, Ergonauti gestisce un’officina di riparazioni veicoli pesanti per aziende pubbliche di trasporti, Pausa Café ha un’attività di torrefazione con prodotti del commercio equosolidale13. La distribuzione delle attività è illustrata nella Tabella 1.

tabella1Tabella 1: Il sistema cooperativo del Polo carcere: distribuzione delle attività

Al 31 dicembre 2010 le 7 cooperative presenti in carcere occupano per le loro attività 327 persone, all’interno e all’esterno del carcere, di cui 182 lavoratori non svantaggiati e 145 svantaggiati (tra cui 59 detenuti). La Tabella 2 illustra quanto segue:

  • il numero dei posti per detenuti occupati nelle cooperative sociali è passato dl 2009 al 2010 da 56 a 59, un incremento inferiore a quello dei posti di “lavoro ministeriale”14;
  • il profilo dell’occupato detenuto tipico è: maschio, addetto full time (oltre 30 ore settimanali), sia comunitario che extracomunitario;
  • il turnover è significativo, avendo fatto ruotare nel 2009 su 56 posti di lavoro 78 occupati, e 95 occupati su 59 posti nel 2010.

tabella2Tabella 2: Caratteristiche degli occupati in carcere nel 2009 e 2010

Le mansioni dei detenuti riguardano in maggioranza (salvo il caso di un manutentore specializzato) qualifiche di operaio generico. Un quadro degli andamenti economici riferiti alle attività lavorate è fornito dalla Tabella 3.

tabella3Tabella 3: Quadro degli andamenti economici riferiti alle attività lavorate
Tutti i valori sono espressi in euro
* GTT, Coop, Eataly, Smat, Compagnia di San Paolo, Slow Food, Comuni, Asl, Regione Piemonte

Gli oltre 800.000 euro investiti andati nel 2010 per lavoratori-detenuti delle cooperative sociali vanno confrontati con i 467.000 euro per i detenuti addetti al “lavoro ministeriale”.

Dario Rei Università degli Studi di Torino - Osservatorio sull'economia civile Comitato imprenditorialità sociale della Camera di commercio di Torino