14  DICEMBRE 2019
 
La nuova disciplina dell’impresa sociale. Una prima lettura sistematica

La nuova disciplina dell’impresa sociale. Una prima lettura sistematica

Abstract

Nell’ambito della generale riforma del Terzo settore, il nuovo decreto sull’impresa sociale si pone l’obiettivo di risolvere le insufficienze e lacune della precedente normativa, al fine di rilanciare l’impresa sociale quale modello organizzativo del Terzo settore imprenditoriale. L’articolo offre una prima lettura globale e sistematica della nuova disciplina dell’impresa sociale, focalizzando l’attenzione sulle norme incentivanti la costituzione e lo sviluppo delle imprese sociali, nonché sugli effetti dell’interazione tra decreto sull’impresa sociale e Codice del terzo settore. L’articolo si sofferma infine sulle cooperative sociali, per valutare, in particolare, le possibili conseguenze del loro riconoscimento normativo come imprese sociali “di diritto”.


In the context of the general reform of the Third Sector, the new decree on social enterprise aims at solving the faults and gaps of the previous norm, with the objective of relaunching social enterprise as an organizational model of the Third Sector characterized by an entrepreneurial nature. This paper presents a first global and systematic overview on the new regulations of social enterprise, by focusing the attention on norms enhancing the constitution and the development of social enterprises, and on the effects of the interaction between the decree on social enterprise and the third sector Code. The paper also investigates social cooperatives in order to evaluate especially the possible consequences of their normative acknowledgement as social enterprises "by law".

 

Generalità

In Italia, l’impresa sociale – già oggetto del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155, adesso esplicitamente abrogato (dall’art. 19, d.lgs. 112/2017) – è oggi specificamente regolata dal decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 1121, attuativo della legge delega 6 giugno 2016, n. 106.

In verità, tale decreto non esaurisce la disciplina dell’impresa sociale. All’impresa sociale, infatti, si applicano, se compatibili con le norme di cui al decreto 112/2017, anche le disposizioni del d.lgs. 3 luglio 2017, n. 1172, recante il Codice del terzo settore (CTS), nonché, in mancanza e per gli aspetti (che rimangono ancora) non disciplinati, le disposizioni del Codice civile concernenti la forma giuridica in cui l’impresa sociale è costituita (art. 1, comma 5, d.lgs. 112/2017).

Lo stesso CTS, del resto, menziona più volte l’impresa sociale: in primo luogo, al fine di chiarire che essa è, a tutti gli effetti, un ente del Terzo settore (art. 4, comma 1; art. 46, comma 1, lett. d); in secondo luogo, al fine di escludere l’applicabilità all’impresa sociale di alcune sue disposizioni (art. 5, comma 1; art. 11, comma 3; art. 71, comma 2; art. 79, comma 1; art. 82, comma 1) ed in rari casi, invece, al fine di ammetterla (art. 82, comma 4; art. 101, comma 8); infine, allo scopo di operare un collegamento con la sua fonte particolare di disciplina, cioè il d.lgs. 112/2017 (art. 40; art. 93, comma 2).

Nonostante le rilevanti novità introdotte dalla riforma, che costituiscono anche il portato dell’intervenuto inquadramento dell’impresa sociale nel terzo settore e nel suo Codice3, l’impianto complessivo della disciplina non è stato rivoluzionato4. L’impresa sociale, come osserveremo, rimane infatti una qualifica che enti privati costituiti in una qualsiasi forma giuridica possono acquisire e mantenere se di essa presentano e conservano nel tempo i requisiti essenziali. Il legislatore della riforma ha, tuttavia, svolto un’importante opera di chiarificazione e sistemazione della normativa previgente, apportando peraltro innovazioni, di varia natura (non solo fiscale), utili e necessarie al possibile “rilancio” dell’impresa sociale.

In prospettiva comparata, la disciplina italiana dell’impresa sociale rappresenta ancora (anzi oggi forse ancor di più) il modello europeo più avanzato – assieme a quello inglese delle community interest companies – di legislazione sull’impresa sociale, e più precisamente il modello più avanzato di legislazione dell’impresa sociale come particolare qualifica normativa, o status giuridico, accessibile ad enti costituiti in diversa forma giuridica (modello che differisce da quello per cui l’impresa sociale è un particolare sottotipo di ente giuridico, più precisamente di società cooperativa, come nel caso delle cooperative sociali previste in vari ordinamenti giuridici europei a partire da quello italiano, o di società di capitali, come nel caso della CIC inglese) (Fici, 2017).

 

Nozione e qualifica di impresa sociale

L’impresa sociale è un particolare soggetto del Terzo settore. L’art. 4, comma 1, CTS, include infatti l’impresa sociale in un elenco di enti del Terzo settore “nominati”, che comprende altresì le organizzazioni di volontariato (ODV), le associazioni di promozione sociale (APS), gli enti filantropici, le reti associative e le società di mutuo soccorso5. In estrema sintesi, può dirsi che l’impresa sociale è la tipologia organizzativa del Terzo settore specificamente ipotizzata dal legislatore per l’esercizio di attività economica d’impresa, anche se tale esercizio non è in principio precluso agli altri enti del Terzo settore (ETS).

L’art. 1, comma 1, d.lgs. 112/2017, chiarisce che quella di impresa sociale è una “qualifica”, in principio acquisibile da tutti gli enti privati a prescindere dalla forma giuridica di loro costituzione (che deve comunque avvenire per atto pubblico: art. 5, comma 1), inclusa quella societaria. Ne deriva la possibilità di avere associazioni “imprese sociali”, fondazioni “imprese sociali”, società cooperative “imprese sociali”, società per azioni “imprese sociali”, e così via. Ovvero, detto altrimenti, imprese sociali costituite in forma di associazione, di fondazione, di cooperativa, di società per azioni, ecc. Ovviamente, la scelta della forma giuridica dell’impresa sociale dipenderà dalle specifiche esigenze sottostanti alla sua costituzione, essendo ciascuna forma giuridica la sintesi di un diverso modello di governance, e dunque di una diversa combinazione di risorse umane, patrimoniali e non patrimoniali, oltre che di una diversa cultura organizzativa che spesso affonda le sue radici in ragioni d’ordine storico o ideologico6.

Per alcuni tipi di enti, ad esempio gli enti pubblici (nonché le società con unico socio persona fisica), l’accesso alla qualifica è invece espressamente escluso (art. 1, comma 2, d.lgs. 112/2017)7, mentre per altri, cioè le cooperative sociali e i loro consorzi, la qualifica si ottiene “di diritto” (art. 1, comma 4, d.lgs. 112/2017)8.

Come stabilisce l’art. 1, comma 1, d.lgs. 112/2017, la qualifica è riservata agli enti che operano in conformità alle disposizioni del decreto, che cioè osservano e rispettano tutte le regole in esso contenute, da quelle relative all’attività da esercitarsi (art. 2) a quelle relative all’assenza di scopo di lucro (art. 3), a quelle relative alla redazione e deposito del bilancio sociale (art. 9, comma 2) e al coinvolgimento di lavoratori ed utenti (art. 11), ecc. Tali precetti normativi, pertanto, costituiscono, tecnicamente, non già veri e propri obblighi di comportamento, bensì oneri di qualificazione. Servono più a delineare i confini e il perimetro dell’impresa sociale come fattispecie, che di per sé a prescrivere condotte. Coerentemente con ciò, le irregolarità accertate e non sanate in sede di controllo pubblico danno luogo alla perdita della qualifica di impresa sociale (e alla sua conseguente cancellazione dalla sezione speciale del registro delle imprese) e non già alla liquidazione dell’ente, ferma restando la devoluzione obbligatoria del patrimonio (art. 15, comma 8, d.lgs. 112/2017).

La qualifica di impresa sociale si ottiene con l’assolvimento del primo onere di qualificazione, cioè con l’iscrizione dell’ente nell’apposita sezione del registro delle imprese (art. 5, comma 2, d.lgs. 112/2017). Tale qualifica può perdersi per atto dell’autorità di controllo o anche volontariamente9. Possono acquisire la qualifica enti di nuova costituzione o enti già costituiti. Se da un lato l’iscrizione nella sezione apposita del registro delle imprese è sufficiente ai fini dell’inquadramento dell’ente nel Terzo settore (cfr. art. 11, comma 3, CTS, che a tal fine la equipara all’iscrizione nel registro unico nazionale del Terzo settore – RUN10), dall’altro lato, anche un ente già costituito come ETS può assumere la qualifica di impresa sociale, anche se tale assunzione determina la perdita delle altre qualifiche specifiche del terzo settore incompatibili con quella di impresa sociale (come quella di ODV), come testimonia l’art. 46, comma 2, CTS, che consente l’iscrizione in una sola sezione del RUN (con l’unica eccezione delle reti associative)11.

Deve sottolinearsi che gli adeguamenti statutari necessari affinché un ETS già costituito possa assumere la qualifica di impresa sociale possono compiersi alla stregua dell’art. 101, comma 2, CTS. L’ETS, pertanto, può beneficiare della possibilità di modificare il proprio statuto “con le modalità e le maggioranze previste per le deliberazioni dell’assemblea ordinaria” entro diciotto mesi dall’entrata in vigore del CTS (dunque, dal 3 agosto 2017)12. Per di più, tali modifiche statutarie sarebbero esenti dall’imposta di registro poiché “hanno lo scopo di adeguare gli atti a modifiche o integrazioni normative” (art. 82, comma 3, CTS).

 

Attività, finalità e governance dell’impresa sociale

Al fine di acquisire e mantenere la qualifica di cui al d.lgs. 112/2017, le imprese sociali sono tenute a svolgere una certa attività per finalità e con modalità predeterminate dal legislatore.

a) L’attività deve essere un’attività d’impresa di interesse generale. Essa deve essere svolta in via stabile e principale, nonché nel rispetto della sua particolare disciplina, ove esistente (art. 2, d.lgs. 112/2017). Il legislatore non si è affidato ad una clausola generale, ma ha elencato le attività d’impresa che sono da considerarsi di interesse generale ai fini del decreto in questione. Come si noterà, l’elenco è molto lungo (più di quello presente nell’art. 2, comma 1, dell’abrogato d.lgs. 155/2006), ma non comprende tutte le attività di cui all’art. 5, comma 1, CTS. Ciò non deve sorprendere, perché l’art. 5 CTS è per sua natura norma generale rispetto all’art. 2 d.lgs. 112/2017, e comprende alcune attività (come ad es. la beneficenza) che, per la loro natura necessariamente gratuita o erogativa, non potrebbero essere svolte in forma d’impresa. L’elenco può altresì essere aggiornato, e dunque altre attività essere aggiunte, con le modalità e procedure di cui all’art. 2, comma 2. Il comma 3 dell’art. 2 chiarisce cosa debba intendersi per attività svolta in via principale. È tale l’attività i cui ricavi siano superiori al settanta per cento dei ricavi complessivi dell’impresa sociale. Tale calcolo deve svolgersi tenendo conto dei criteri fissati da un decreto ministeriale, ancora da emanarsi13.

D’interesse generale si considera inoltre, a prescindere dal suo oggetto, l’attività d’impresa nella quale siano occupati i lavoratori molto svantaggiati di cui alla lettera a) del comma 4 dell’art. 2, o le persone svantaggiate o con disabilità o le altre persone indicate alla lettera b) della medesima disposizione, nella percentuale minima di cui al successivo comma 5 (30% dei lavoratori da calcolarsi per teste, ma ai fini del computo del 30% i lavoratori di cui alla lettera a) del comma 4 non possono contare per più di un terzo). In sostanza, in quest’ultimo caso, al fine di qualificare l’attività come di interesse generale, al legislatore non interessa il tipo di bene o servizio che l’impresa sociale produce ovvero il settore di attività in cui essa opera, bensì il semplice fatto che determinate persone siano impiegate nell’attività d’impresa. È quest’ultima la circostanza che realizza l’interesse generale, in considerazione delle particolari condizioni in cui versano i lavoratori da impiegarsi nella percentuale minima del 30%.

Naturalmente, niente in linea di principio impedisce che un’impresa sociale possa assumere entrambe le finalità, cioè quella di inserire al lavoro le persone di cui all’art. 2, comma 4, in una o più attività d’impresa di cui all’art. 2, comma 1.

b) Nonostante l’art. 1, comma 1, d.lgs. 112/2017, e la rubrica dell’art. 3 del medesimo decreto riferiscano all’impresa sociale l’assenza di scopo di lucro, in realtà, se si esamina con attenzione l’art. 3, emerge innanzitutto che l’assenza di scopo di lucro non è totale (cfr. comma 3) ed in secondo luogo che l’art. 3, comma 1, non tanto formula un divieto, quanto, in positivo, si preoccupa di vincolare l’impresa sociale ad una certa destinazione degli utili ed avanzi di gestione comunque denominati, segnatamente “allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio”.

Al fine di assicurare la destinazione impressa dal comma 1 ad eventuali utili o avanzi di gestione, il successivo comma 2 dell’art. 3 pone specifici divieti diretti ad impedire la c.d. distribuzione indiretta di utili, ossia l’aggiramento del vincolo di destinazione mediante atti e negozi che, pur avendo diversa causa, possono di fatto “incorporare” un’assegnazione di utili. Così, è vietato ad esempio all’impresa sociale remunerare i propri amministratori o i propri lavoratori oltre determinate soglie individuate dal legislatore in maniera più o meno rigida.

Il comma 3 dell’art. 3 opera, invece, in deroga al comma 1 del medesimo articolo. Al fine di favorire l’accesso di capitali di rischio nell’impresa sociale permette alle società imprese sociali (e non già, dunque, anche alle associazioni e fondazioni imprese sociali) non solo di rivalutare il capitale sottoscritto dai soci, ma anche di assegnare dividendi ai propri soci, ponendo però due limiti a questa facoltà: un limite oggettivo (può così destinarsi soltanto una quota inferiore al cinquanta per cento degli utili e degli avanzi di gestione annuali, dedotte eventuali perdite maturate negli esercizi precedenti) ed un limite soggettivo (il capitale effettivamente versato non può essere remunerato in misura superiore all’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo).

La lettera b) del comma 3 trova invece una diversa giustificazione. Consente alle imprese sociali (in qualsiasi forma costituite) di erogare una quota inferiore al cinquanta per cento degli utili e degli avanzi di gestione annuali, dedotte eventuali perdite maturate negli esercizi precedenti, in favore di altri ETS, che non abbiano la qualifica di impresa sociale e non siano fondatori, associati o soci dell’impresa sociale erogante o enti controllati da quest’ultima. Tale erogazioni devono essere finalizzate alla promozione di specifici progetti di utilità sociale. In questo caso, il legislatore ha inteso l’impresa sociale, figura imprenditoriale del Terzo settore, come possibile strumento di supporto finanziario del Terzo settore non imprenditoriale. La prospettiva è quella dell’impresa sociale che produce utili sul mercato e ne destina parte per la promozione di iniziative socialmente utili intraprese da ODV o APS o altri soggetti del Terzo settore di natura erogativa.

c) Un terzo gruppo di norme del d.lgs. 112/2017 si occupa della governance dell’impresa sociale. In generale, come in precedenza si accennava, la struttura di governo dell’impresa sociale dipende dalla forma giuridica in cui l’impresa sociale è costituita. Ad esempio, l’impronta sarà capitalistica se l’impresa sociale ha forma di società per azioni. Mentre sarà personalistica se ha la forma di associazione o di cooperativa. Vi sono tuttavia delle norme comuni di base che ogni impresa sociale, indipendentemente dalla sua forma giuridica, deve osservare ai fini della conservazione della qualifica. Questo standard minimo, o minimo comune denominatore, è, appunto, individuato dal d.lgs. 112/2017 in diverse disposizioni.

Tra queste disposizioni particolare rilievo hanno quelle che, al fine di garantire l’autogestione dell’ente, riservano la nomina di almeno la maggioranza degli amministratori all’assemblea dei soci o degli associati dell’impresa sociale (art. 7, comma 1); per fini di trasparenza ed accountability, obbligano l’impresa sociale a redigere il bilancio di esercizio (secondo le regole di cui agli artt. 2423, 2435-bis o 2435-ter, Codice civile) e il bilancio sociale in conformità a linee guida ministeriali (art. 9); per ragioni di tutela della legalità e correttezza della condotta degli amministratori, anche sotto il profilo dell’osservanza delle finalità sociali, vincolano l’impresa sociale ad avere almeno un sindaco con i requisiti di cui agli artt. 2397, comma 2, e 2399 del Codice civile, nonché, in presenza di determinate circostanze, un revisore legale iscritto oppure un sindaco che sia revisore legale iscritto (art. 10); per assicurare il carattere partecipativo dell’impresa sociale, prevedono forme di coinvolgimento dei lavoratori, utenti ed altri stakeholder (art. 11); affinché l’impresa sociale sia un luogo dove regni l’equità nel trattamento dei dipendenti, fissano un tetto alla differenze retributive (art. 13).

 

Il controllo pubblico

Un’adeguata disciplina dell’impresa sociale deve contenere norme che istituiscano forme di controllo pubblico idonee a garantire che la qualifica di impresa sociale sia utilizzata soltanto da enti che siano realmente tali, che siano cioè costituiti ed operino nel rispetto delle norme di legge applicabili14. Ciò deve avvenire sia nell’interesse dello Stato che finanzia l’impresa sociale attraverso misure fiscali o d’altro genere (nonché degli altri enti pubblici che con le imprese sociali intrattengano rapporti convenzionali), sia nell’interesse stesso delle imprese sociali intese come sistema di imprese fondato su un “immagine” comune, quella appunto di impresa sociale, poiché l’uso improprio della qualifica, anche da parte di una sola unità del sistema, può causare danni d’immagine che si ripercuotono sull’intero sistema15.

Il legislatore si è occupato della questione nell’art. 15 del d.lgs. 112/2017, giungendo ad una revisione della disciplina previgente, attraverso il recepimento di soluzioni in vigore nel settore delle società cooperative. La titolarità della funzione di controllo rimane in capo al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che concretamente la esercita mediante l’Ispettorato nazionale del lavoro (art. 15, comma 2). Il Ministero, tuttavia, può in alternativa decidere di avvalersi di enti associativi tra imprese sociali, cui aderiscano almeno mille imprese sociali iscritte nel registro delle imprese di almeno cinque regioni o province autonome, nonché delle associazioni di cui all’art. 3, d.lgs. 220/2002, cioè le c.d. “centrali cooperative”, che già per legge esercitano (e continueranno ad esercitare, alla luce di quanto previsto dall’art. 15, comma 5, d.lgs. 112/2017) il controllo sulle cooperative sociali (art. 15, comma 3).

L’ispezione deve avere almeno periodicità annuale ed essere svolta sulla base di un verbale approvato con decreto ministeriale. Spetterà ad un successivo decreto ministeriale regolare più dettagliatamente l’attività ispettiva (art. 15, comma 4). Se si accertano violazioni, il soggetto esercente l’attività ispettiva diffida l’impresa sociale alla loro regolarizzazione entro un congruo termine (art. 15, comma 6). Se le irregolarità sono insanabili o non sono sanate nel termine indicato nella diffida, il Ministro dispone la perdita della qualifica di impresa sociale e la devoluzione del patrimonio residuo – dedotto, nelle imprese sociali societarie, il capitale effettivamente versato dai soci, eventualmente rivalutato, e i dividendi deliberati e non distribuiti – o al fondo di cui all’art. 16 o alla Fondazione Italia Sociale (art. 15, comma 8). L’impresa sociale è dunque conseguentemente cancellata dall’apposita sezione del registro delle imprese. Contro questi provvedimenti, è ammesso ricorso davanti al giudice amministrativo (art. 15, comma 9).

Antonio Fici Università degli Studi del Molise