14  DICEMBRE 2019
 
Composizione sociale italiana e nuovo sviluppo: scenari per un ruolo attivo dell'impresa sociale

Composizione sociale italiana e nuovo sviluppo: scenari per un ruolo attivo dell'impresa sociale

Abstract

Dopo la crisi la ripresa: l’economia, la società, le istituzioni sono cambiati, anche a seguito di uno straordinario sforzo di sopravvivenza e riposizionamento. La domanda alla quale questo saggio vuole rispondere è relativa alla composizione sociale che sta attuando la strutturale transizione di questi anni: qual è l’articolazione sociale che caratterizza il nostro Paese nella fase di uscita dalla crisi?

La crisi ha rilanciato una connotazione della nostra società molecolare, molto differenziata, ad alta soggettività, a basso radicamento, piena di aspettative e di obiettivi diversi, e ha reso più stringenti alcune patologie sociali, quali la precarizzazione del lavoro, la povertà e le disuguaglianze sociali. Fenomenologie reali e significative che alimentano però letture statiche della realtà sociale, come quella della terza società degli esclusi. Invece, per capire come promuovere e accompagnare un nuovo sviluppo l’attenzione va posta sui processi per intercettare eventuali nuovi protagonismi di massa, collettivi, in grado di generare una dinamica di crescita.

I nuovi protagonisti vanno da un ceto medio diverso dal recente passato, sobrio e propenso alla responsabilità individuale, ad una imprenditorialità di massa che conquista nuove frontiere, per crescere in modo più stabile o semplicemente utilizzando con astuzia soglie più basse di accesso ai processi di creazione del reddito. La nuova composizione sociale non può essere letta solo come figlia dei processi regressivi – dalle nuove povertà e disuguaglianze alla precarietà concentrata tra giovani e meno istruiti – ma si alimenta delle dinamiche virtuose di nuove imprese, anche di natura sociale, di competenze acquisite magari all’estero e rigiocate nei contesti locali o della capacità inedita di utilizzare le opportunità delle nuove tecnologie.


After the crisis, the growth: economy, society and institutions changed, especially after an extraordinary effort to surviving and reposition themselves. This essay tries to answer a question on the social composition which is currently realizing a structural transition: which is the social articulation characterizing our country in this last phase of the crisis?

The crisis connotated our society as molecular, extremely differentiated, highly subjective, that is not deeply rooted, but rather full of expectations and different objectives, and it made certain social pathologies more urgent, such as precarious labour, poverty and social inequalities. These real and significant phenomenologies are fostering statistical interpretations of social reality, such as those on the third society of excluded people. On the other hand, in order to understand how to promote and follow a new development, attention should be drawn upon the identification of new collective protagonisms, able to engender a dynamic of growth.

New protagonists range from a middle class that is different from the recent past - plain and inclined to individual responsibility - and a collective entrepreneurship that is conquering new frontiers, in order to grow in a more stable way or simply taking advantage of lower barriers to participate in processes of income creation. New social composition cannot be interpreted only as an outcome of regressive processes - from new poverties and inequalities to precariousness, that is widespread among young and less cultivated people - but it is also fostered by virtuous dynamics of new enterprises, by competences acquired abroad and exploited in local contexts or by the innovative ability to use the opportunities offered by new technologies.

 

Capire oggi la nostra società

Questo saggio vuole rispondere ad una domanda chiave relativa alla composizione sociale di questi anni: qual è l’articolazione sociale che connota il nostro Paese nella fase di uscita dalla crisi, tenuto conto dei processi in atto? E quanto tale composizione conferma o smentisce le interpretazioni socio-politiche che più sono ascoltate, alle quali afferiscono idealità e progetti diversi?

Nella crisi si è rilanciata la connotazione principale della nostra società: molecolare, ad alta soggettività, a basso radicamento, piena di aspettative e di obiettivi diversi. Una società che ha messo in crisi le giunture sistemiche della vita collettiva, refrattaria alle tante modalità di governo e che ha patologie note, a cominciare dalla diffusa sensazione di obbligata solitudine messa in luce da fenomenologie diverse (come ad esempio le tragiche esperienze degli imprenditori suicidi al tempo della crisi). Inoltre, le dinamiche regressive della crisi hanno reso più stringenti alcune patologie sociali: la precarizzazione del lavoro, la povertà e le disuguaglianze sociali. Fenomenologie reali, significative, che alimentano però letture statiche della realtà sociale come quella della terza società degli esclusi o del ritorno della lotta di classe.

Invece, per comprendere come promuovere e accompagnare un nuovo sviluppo l’attenzione andrebbe posta sui processi per intercettare eventuali nuovi protagonismi di massa, collettivi, in grado di generare una dinamica di crescita, in linea con la logica dello sviluppo italiano che, dal miracolo economico alla recente reazione di sopravvivenza alla crisi, è sempre stato alimentato da energie collettive interne al sistema.

Se negli anni recenti la crisi ha generato paura e rattrappimento con effetti non neutrali sulle energie collettive, i processi consentono di cogliere l’altra faccia della fenomenologia sociale, quella che racconta di una dinamica che va oltre la regressione e che già oggi parla e pratica sviluppo. I nuovi protagonisti della ripresa sono già qui e vanno da un nuovo ceto medio diverso dal recente passato, sobrio e propenso alla responsabilità individuale, ad una mai spenta imprenditorialità di massa che conquista nuove frontiere, utilizzando con astuzia soglie più basse di accesso ai processi di creazione del reddito e camminando sempre più sulle gambe dei Millennials.

La nuova composizione sociale non può essere letta solo come figlia dei processi regressivi, dalle nuove povertà e disuguaglianze alla precarietà concentrata tra giovani e meno istruiti; essa si alimenta delle dinamiche virtuose di nuove imprese, di competenze acquisite magari all’estero e rigiocate nei contesti locali o della capacità inedita di utilizzare le opportunità delle nuove tecnologie.

E’ importante dare visibilità ad una composizione sociale in evoluzione, complessa, capace di coltivare aspettative di crescita con percorsi ascensionali, magari ancora allo stato iniziale, ma già largamente oltre le logiche di puro attendismo.

 

Interpretazioni diverse della società italiana

L’analisi della composizione sociale è sempre stata al centro di una notevole articolazione di pensiero; è così anche in questa fase, in cui si tende a fissare gli esiti della crisi e le potenzialità della tenue ripresa che annuncia il ritorno allo sviluppo. Quale composizione sociale lascia il lungo periodo di crisi? Qual è la risultante della regressività di alcune patologie sociali da un lato e delle strategie di riposizionamento e del nuovo protagonismo che si annuncia, dall’altro? Sono essenzialmente tre le interpretazioni alternative della composizione sociale da considerare, perché hanno notevole ascolto e sono foriere di proposte operative molto diverse tra loro.

 

La terza società degli esclusi

Le società coesistenti nella composizione sociale attuale sarebbero tre: la prima società delle garanzie, in primis nel lavoro con l’articolo 18; la seconda società del rischio, fatta di commercianti e autonomi che operano su mercati di prodotti e servizi, e la terza società di persone, in particolare donne e giovani, che lavorano di fatto in nero, nel sommerso, con poche tutele (o nessuna). I membri della terza società vorrebbero avere lavoro regolare e relative tutele, ma semplicemente non vi hanno accesso.

Nelle tre società si verifica una tripartizione quasi eguale del totale dei lavoratori, con la collocazione in essa di disoccupati, lavoratori in nero, scoraggiati, oltre che precari. Naturalmente tutto andrà riletto alla luce degli effetti del Jobs Act che, però, pur nella ipotesi più positiva, difficilmente riuscirà a modificare la base materiale di questa interpretazione. Infatti, la ratio della collocazione sociale nel terzo escluso non è reddituale o patrimoniale, ma l’essere esclusi dalle tutele effettive della prima società e dalle potenzialità di reddito di molti degli esponenti della seconda società. Politicamente questa società tende a non avere rappresentanza, incontra qualche sostegno estemporaneo a livello culturale e politico, ma non genera propria rappresentanza socio-politica o istituzionale.

 

La lotta di classe

La visione della lotta di classe – condivisa di fatto da molti analisti, sindacalisti e politici – parte dalla convinzione che la scomparsa della centralità operaia e della fabbrica e lo smarrirsi delle forme più tradizionali di organizzazione sindacale e politica, non hanno cancellato la lotta di classe intesa come centralità – nella composizione sociale e nella dinamica dei rapporti sociali – del conflitto capitalisti/imprenditori e operai, che rimane la griglia principale e più efficace di lettura della società.

Precariato e boom dei servizi avrebbero articolato il lavoro operaio di un tempo, senza però alterare la sostanza della composizione sociale, e più ancora senza cancellare la linea che divarica gli interessi delle persone in relazione alla loro collocazione sociale. In quest’ottica, oggi sarebbe sul tappeto un problema politico di ricomposizione dei frammenti della nuova classe operaia diffusa, fermo restando le linee di demarcazione sociale tradizionali, magari un po’ appannate dalla nuova composizione sociale.

E’ una lettura che ha trovato rinnovato vigore in alcuni innegabili esiti della crisi, come l’ampliamento delle disuguaglianze, la caduta dei redditi più bassi e la destrutturazione di tutele che sino a non molto tempo fa davano forza a lavoratori che si sentivano al riparo dai rischi di disagio sociale. Più ancora, la crisi avrebbe azzerato le lunghe derive della cetomedizzazione; pertanto, la complessità dei rapporti di proprietà e la patrimonializzazione di massa, gli esiti della società dei consumi ed il dominio della soggettività in ogni ambito avrebbero prodotto un appannamento temporaneo della divisione in classi. Oggi, con la crisi, esce di scena definitivamente l’idea di una identità sociale fuori e oltre i codici classisti. In questa visione si ritiene che alla lotta di classe tra operai e capitalisti della visione classica si è sostituita una lotta di classe estesa all’intero contesto sociale a seguito dell’ampliamento delle disuguaglianze.

 

La società molecolare vista dal Censis

La società italiana è indistinta perché non descrivibile con forme e figure delineate e significative, ed è sfuggente perché al suo interno si vaga senza radicamenti; quelle citate sono le due caratteristiche costitutive della società che affiancano la caratteristica primaria già indicata, ossia l’essere una società liquida che ha eroso le giunture sistemiche della vita collettiva. Non a caso le progettualità complessive di tipo sistemico sono rimaste inagite, progettualità di pura carta.

In tale contesto non poteva non prevalere una vocazione antica e profondamente radicata nei comportamenti sociali diffusi: vivere in orizzontale, aggregarsi in mondi chiusi in se stessi, privi di capacità di comunicazione in verticale. Sono mondi che non riescono a generare confronto esterno, e per questo vivono di se stessi contenendo la potenza, tanto da diventare incapaci di generare effetti oltre il proprio specifico contesto. Individualismo e soggettività sono forze motrici ancora rilevanti che però hanno fatto emergere anche i loro eccessi patologici, erodendo pericolosamente le tante forme di legame sociale.

 

La società così com’è: le dinamiche regressive

 

Tra precariato, povertà e disuguaglianza crescente

Sono oggi in atto dinamiche regressive che hanno implicazioni rilevanti sulla composizione sociale e a cui fanno riferimento alcune delle visioni della società che più hanno corso. La sottile ansia di non avere più le “spalle coperte” dall’accesso al lavoro, dalle auto-tutele e dal welfare – e che di conseguenza si possa d’improvviso essere inghiottiti dal disagio sociale e dalla povertà – ha impattato profondamente sulla vite individuali e sulle aspettative collettive. Precariato, povertà diffusa e disuguaglianze sono tre dinamiche regressive entrate nella vita quotidiana degli italiani e che hanno quasi egemonizzato il racconto della crisi; per questo è importante focalizzare le forme e gli effetti che hanno concretamente assunto e definire i segmenti sociali che più ne sono stati coinvolti.

 

Distruzione di lavoro, occupabilità differenziata e precarizzazione diffusa

Il rapporto con il lavoro è al cuore dei processi regressivi che negli anni della crisi hanno toccato il proprio massimo: si è assistito ad una distruzione intensa di lavoro, con crescente differenziazione della occupabilità e relativa debolezza aggiuntiva di taluni gruppi sociali, come le persone con basso titolo di studio e i giovani, più toccati dalla paradossale stabilizzazione della precarietà.

La distruzione di lavoro è evidente: focalizzando l’attenzione sugli anni della crisi emerge che sono stati distrutti – per il totale della popolazione con almeno 15 anni – 615mila posti di lavoro, pari a -2,7% dell’occupazione totale (Tabella 1) (Censis, 2015c). Dal 2007 fino a tutto il 2013 l’occupazione si è mossa verso il basso toccando il minimo di 22,2 milioni di occupati, e solo il 2014 ha segnato un’inversione di tendenza con circa 88mila nuovi occupati.

maietta1Tabella 1. Andamento dell’occupazione per classi di età. Anni 2007-2014 | Fonte: Elaborazione Censis su dati Istat

La distruzione di occupazione si è andata a innestare in un mercato del lavoro già segnato da differenze significative di occupabilità tra i gruppi sociali. Infatti, le persone con basso titolo di studio hanno una più bassa occupabilità, come emerge dai tassi di occupazione per livello di scolarità: il tasso di occupazione delle persone con licenza elementare è del 28,1%, di quelle con licenza media del 54,3%, dei diplomati del 68,7% e dei laureati dell’80,2%. Esiste quindi una relazione diretta tra livello di scolarità e tasso di occupazione della popolazione non in istruzione formale; il divario tra i tassi di occupazione di persone con licenza elementare e laureati è pari a oltre 50 punti percentuali, è di oltre 26 punti percentuali rispetto a chi ha la licenza media e di quasi 12 punti percentuali rispetto ai diplomati.

Anche la diversa probabilità di entrare nel mercato del lavoro sin dalla prima fase di transizione scuola-lavoro penalizza i livelli di scolarità più bassi. Infatti, se nel periodo 2008-2013 si sono drasticamente ridotti, per tutti i livelli di scolarità, i tassi di transizione dalla condizione di studente a quella di occupato, il crollo del tasso di transizione studente-lavoro tra le persone 15-29 anni non più in istruzione è stato dal 36,4% al 12% per le persone con licenza elementare, mentre dal 56% al 32,9% per i laureati. Crisi occupazionale per tutti i giovani, quindi, ma con una penalità aggiuntiva per i bassi livelli di scolarità, che hanno vissuto anche una più alta probabilità di perdere l’occupazione.

Nella crisi l’elemento primo della fragilità occupazionale è stato rappresentato dalla precarietà riferita alle tipologie contrattuali; durante la crisi si è riscontrato che i tagli di occupazione nelle imprese sono stati subiti in maggior misura dalle persone in occupazione temporanea. E poiché i contratti temporanei erano molto più diffusi in alcuni gruppi sociali, dai giovani alle persone con più basso titolo di studio, è su questi che più si è abbattuta la distruzione di lavoro.

Durante la crisi i termini “giovani” e “precari” sono diventati sinonimi e non solo in Italia. Ora il Jobs Act si pone come ripartenza, ma l’esito al termine del periodo di concessione delle agevolazioni contributive è tutto da verificare. Certo è che ha un compito titanico, tanto più che ad oggi, sebbene si sia bloccata la distruzione di lavoro, non è ripartita con intensità la creazione di lavoro aggiuntivo. Pertanto, persiste l’esito della dualità del mercato del lavoro, che consiste in una sorta di sovrappopolazione relativa che sinora ha dovuto subire tutti i processi di aggiustamento congiunturale e strutturale, perché fuori dal circuito delle tutele. Ed è una sovrappopolazione relativa composta da giovani e persone a più basso titolo di studio, relegati in posizione marginale, ammortizzatore degli equilibri del mercato del lavoro.

Peraltro, questa evidente funzionalità della temporaneità lavorativa utilizzata come cuscinetto elastico su cui scaricare il peso degli aggiustamenti del mercato del lavoro, ha generato una netta maggioranza contraria a percorsi di minori tutele per i lavoratori più giovani o comunque per alcuni lavoratori rispetto ad altri. Infatti, dall’indagine del Censis risulta che pagare meno e/o dare meno tutele a chi entra nel mercato del lavoro non è una scelta efficace. Infatti (Tabella 2):

  • il 67,5% (che sale ad oltre il 69% tra i Millennials) ritiene sia ingiusto, perché si creano fasce di lavoratori penalizzati, facilmente ricattabili;
  • il 19,3% ritiene che sia inevitabile, altrimenti le aziende non assumono nuovo personale, devono poterlo mandare via se non vale;
  • per il 13,2% è giusto, perché, per forza di cose, è meno produttivo, meno capace, deve imparare.

L’esperienza della precarietà diffusa ha convinto gli italiani che garantire minori tutele non consentirà di innescare la creazione di nuova occupazione reale e solida; di fronte a diversificazioni delle condizioni di tutela prevale il timore di nuove spirali perverse di precarietà o marginalità occupazionale.

Del resto, il costo della precarietà è stato quasi interamente assorbito dalle famiglie, se è vero che dei circa 4,4 milioni di giovani che vivono per conto proprio, da soli o sposati/conviventi, 979mila non riescono a coprire le spese mensili con il proprio reddito e 2,3 milioni ricevono regolarmente o di tanto in tanto aiuto economico dai propri parenti. Ai 979 mila Millennials che formalmente vivono per conto proprio e che ricevono aiuto economico regolare, le rispettive famiglie erogano un totale di 4,8 miliardi di euro annui.

maietta2Tabella 2. L’opinione degli italiani sulle regole per i nuovi occupati, per età degli intervistati (valori %) | Fonte: Indagine Censis, 2013

Più povertà, maggiore disuguaglianza

Dati ufficiali di confronto UE segnalano che in Italia negli anni della crisi si è avuto un incremento delle persone a rischio di povertà o di esclusione sociale da 15.099.000 a 17.326.000, con oltre 2,3 milioni di persone in più che sono entrate in territorio a rischio disagio, povertà, esclusione sociale (Tabella 3). Va poi tenuto presente che i trasferimenti sociali tengono fuori dall’area del rischio di povertà quasi il 5,2% degli italiani: sono infatti il 24,4% gli italiani a rischio povertà prima dei trasferimenti sociali dello Stato e sono il 19% dopo l’erogazione di tali risorse.

E’ indubbio che si è registrata una sorta di compressione verso il basso di persone che non hanno avuto più redditi o semplicemente si sono trovate ad affrontare spese crescenti con conseguente insostenibilità dei budget familiari. In parallelo con l’ampliamento dell’area del disagio sociale, si è avuto anche un ampliamento della forbice sociale: infatti, prendendo a riferimento dati Istat relativi alle professioni svolte dagli italiani, emerge che nel periodo 2007-2013 (Tabella 4):

  • i lavoratori in proprio hanno subito una riduzione della spesa media mensile pari al 20,6%;
  • gli operai e assimilati del -20,7%, con 2.192 euro mensili;
  • gli imprenditori e i liberi professionisti del -16,0%, con una spesa pari a 3.393 euro;
  • i dirigenti e gli impiegati del -13,8%, con una spesa pari a 2.911 euro.

maietta3Tabella 3. Persone a rischio povertà o esclusione sociale*: confronto tra alcuni Paesi europei. Anni 2008-2013 | Fonte: Elaborazione Censis su dati Eurostat | * L’indicatore rischio di povertà o esclusione sociale considera la percentuale di persone che si trovano in almeno una delle seguenti condizioni: vivono in famiglia a bassa intensità di lavoro (hanno lavorato meno del 20% del totale dei mesi dell’anno) / vivono in famiglie a rischio di povertà, cioè con un reddito familiare inferiore al 60% del reddito mediano nazionale (nel 2013 la soglia per l’Italia è pari a 9.456 euro annui) / vivono in famiglie in condizioni di grave deprivazione materiale, ossia presentano almeno 4 delle seguenti 9 condizioni: mancanza di telefono, tv a colori, lavatrice, automobile, impedimenti nel consumare un pasto a base di carne o pesce ogni 2 giorni, nello svolgere una vacanza di almeno 1 settimana fuori casa durante l’anno, nel pagare regolarmente rate di mutui o affitto, nel mantenere l’appartamento riscaldato, nel fronteggiare spese inaspettate.

maietta4Tabella 4. La spesa media mensile delle famiglie per condizione professionale. Anni 2007-2013 | Fonte: Elaborazione Censis su dati Istat

Nel biennio 2012-2013 gli operai e assimilati hanno subito una contrazione della spesa media mensile del -6,9% in termini reali, di contro al -3,6% dato medio.

Chi meno spendeva, più ha dovuto tagliare, con conseguente allungamento delle distanze di spesa tra gruppi sociali. Pertanto, si è avuta una doppia regressività:

  • ampliamento dell’area del disagio conclamato e di quella a rischio disagio;
  • ampliamento delle disuguaglianze sociali e di reddito, con un esito della crisi più penalizzante per i gruppi sociali a più basso reddito e/o con minori risorse e opportunità.

E’ il capovolgimento del paradigma dello sviluppo italiano in cui la maggioranza delle famiglie migliorava il proprio livello di benessere in un contesto di compattamento e di minori distanze sociali; nella crisi, invece, in tanti hanno visto peggiorare la propria condizione sociale in un contesto di ampliamento delle distanze, con il rischio di fratture sociali. Per questo grandi ricchezze e/o redditi convivono con nuove e profonde povertà, e tutto in un contesto socialmente immobile che inevitabilmente allunga le distanze e rende possibili le fratture.

Francesco Maietta Fondazione Censis