14  DICEMBRE 2019
 
Cooperazione di comunità e la partecipazione alla gestione dei servizi pubblici

Cooperazione di comunità e la partecipazione alla gestione dei servizi pubblici

 

Abstract

Le cooperative di comunità si stanno oggi diffondendo in diverse parti del mondo. Questo fenomeno è il punto di arrivo di un’evoluzione secolare che ha visto il progressivo spostamento del baricentro delle cooperative da particolari gruppi sociali o professionali alla società nel suo complesso. Mentre in passato le cooperative si preoccupavano in via prioritaria di soddisfare i bisogni di specifici gruppi all’interno della società, spesso individuati sulla base delle funzioni economiche svolte (lavoratori, consumatori, ecc.), le cooperative di comunità sono al servizio di un’intera comunità. In questo saggio ci interroghiamo sulla natura istituzionale della cooperazione di comunità così come si presenta oggi e su come questa si è sviluppata a partire da forme precedenti.


Nowadays, community cooperatives are spreading in various parts of the world. This phenomenon represents the finish line of a historical evolution that was characterized by the progressive transfer of cooperatives’ core from particular social or professional groups to society as a whole. While in the past the main concern of cooperatives was to satisfy the needs of specific groups within society, usually identified on the basis of their economic functions (workers, consumers…), community cooperatives aim at providing a service to the whole community. In this essay we investigate the institutional nature of community cooperation as it presents itself nowadays, and on how it developed starting from its previous forms.

 

Questo saggio è tratto da:

Euricse (2015), Economia cooperativa. Rilevanza, evoluzione e nuove frontiere della cooperazione italiana, Terzo Rapporto Euricse.

 

Cooperative tradizionali, gruppi di interesse e beni di interesse generale

Per lungo tempo le cooperative1 sono state costituite e gestite allo scopo di procurare benefici ai propri soci. Fin dagli esordi questo fu riconosciuto come un principio fondamentale della cooperazione. Il regolamento del 1844 della Rochdale Society – generalmente considerato come il manifesto del movimento cooperativo – è esplicito in questo senso: “La cooperativa si attiva per dare seguito all’obiettivo di procurare benefici pecuniari ai suoi soci, nonché il miglioramento delle loro condizioni sociali e personali” (Articolo Primo - Holyoake, 1893)2. A quel tempo i soci delle cooperative appartenevano per lo più alla classe lavoratrice, cioè erano lavoratori salariati, piccoli agricoltori, artigiani. Nonostante la varietà delle idee riformatrici allora in circolazione3, vi era un consenso tra i primi riformatori sociali che si occuparono di cooperazione – Robert Owen, Charles Fourier, William King e George Cole – sul fatto che la nuova forma di impresa doveva sollevare queste categorie dallo svantaggio sociale ed economico in cui si trovavano a causa della mancanza di capitale. Di fatto, le cooperative erano viste come strumento per soddisfare i bisogni di gruppi socialmente svantaggiati. Tuttavia molto presto ha iniziato a diffondersi l’idea che la cooperazione potesse essere utile anche alla società nel suo complesso.

Le principali categorie di cooperative sviluppatesi nel XIX secolo – consumo, lavoro e credito – erano solitamente al servizio di interessi che non appartenevano a tutti i membri della società, bensì a gruppi ristretti di soggetti (come abbiamo visto, la società entrava in gioco indirettamente, se e nella misura in cui la cooperativa favoriva l’avanzamento delle classi inferiori). In una parola, le cooperative erano collegate a interessi particolari. Ad un certo punto, accanto a queste tipologie, hanno iniziato ad emergere cooperative che, nonostante fossero ispirate agli stessi ideali e avessero le stesse forme giuridiche, avevano una natura sostanzialmente diversa, in quanto offrivano servizi essenziali di interesse per tutti i membri di una comunità, non solo una parte di essa. Le cooperative elettriche sorte in diverse parti del mondo agli inizi dell’elettrificazione sono uno degli esempi più chiari e significativi.

La prima cooperativa elettrica del mondo è probabilmente la “Società cooperativa per l’illuminazione elettrica” fondata a Chiavenna nel 1894 (e tuttora attiva)4. Da allora sono nate numerose cooperative elettriche in Italia e altrove e negli anni ’30 questo ramo del movimento cooperativo era ben consolidato. In Italia queste cooperative producevano tutte energia idroelettrica e erano localizzate nell’area alpina. Inoltre, erano quasi tutte collocate in piccoli paesi ed erano di piccole dimensioni anch’esse. Nel 1962 – l’anno della nazionalizzazione dell’energia elettrica – in Italia erano attive più di 200 cooperative elettriche (alcune delle quali sfuggirono alla nazionalizzazione e sono ancora oggi in attività). Queste cooperative fornivano in regime di monopolio un servizio di interesse generale5 e soddisfacevano i bisogni di intere comunità, indipendentemente dal fatto che gli utenti fossero o meno soci. Con l’attivazione di un generatore elettrico e di una rete di distribuzione, i soci perseguivano il proprio interesse ma solitamente fornivano anche i non soci, procurando in tal modo anche ad essi benefici e di fatto beneficiando l’intera società locale. Storie simili si possono ritrovare in Francia, Germania e Spagna, dove le cooperative elettriche avevano caratteristiche simili (tecnologia idroelettrica, dimensione piccola) ed erano collocate in aree con caratteristiche simili (per la maggior parte in zone rurali). La storia delle cooperative elettriche statunitensi è leggermente diversa. La maggior parte di esse erano solo distributori di elettricità, sorti sotto l’impulso del Rural Electrification Act del 1936, al fine di servire le aree ancora non raggiunte da fornitori pubblici o privati lucrativi: essenziale qui fu l’azione del governo centrale attraverso prestiti e sussidi (Cooper, 2008), diversamente da quanto accaduto per le loro sorelle in Europa.

Abbiamo fin qui visto due diversi modi di rapportarsi alla società, uno incentrato sull’avanzamento sociale delle classi inferiori e uno sulla fornitura di servizi di interesse generale. Nel prossimo paragrafo ne esamineremo un terzo: la gestione di imprese con l’esplicito scopo di recare benefici a persone diverse dai soci.


Cooperazione e la cura della comunità: un’idea diversa del rapporto con la società

Il fondamento delle cooperative tradizionali è, come abbiamo visto, il beneficio del socio. Questo tratto ha accomunato tutte le tipologie di cooperative fino alla fine del XX secolo. In questa prima fase le cooperative si sono evolute essenzialmente entrando in nuovi settori di attività ma hanno mantenuto le proprie caratteristiche di base, tra cui l’obiettivo di procurare benefici ai propri soci. Nell’ultima parte del secolo si è fatto un passo ulteriore nell’evoluzione della specie, sono cambiati gli scopi stessi delle cooperative, con la creazione di nuovi modelli organizzativi di cooperazione che di fatto determinano uno scostamento dalla cooperazione tradizionale (Chaddad, Cook, 2004): cooperative che non si propongono di apportare benefici ai propri soci sono diverse da quelle tradizionali; sono a tutti gli effetti altre organizzazioni.

Nella Dichiarazione d’Identità Cooperativa del 1995 dell’Alleanza Cooperativa Internazionale (ICA), viene richiamata la “cura della comunità” come compito della cooperazione6. Prendersi cura è un agire che sottintende il perseguimento di uno scopo esplicito. Quando lo scopo esplicito di una cooperativa è promuovere il benessere dei non soci, ci troviamo di fronte a qualcosa di radicalmente nuovo rispetto al passato. Le prime cooperative in effetti apportavano benefici alla società nel complesso attraverso lo scambio con i non soci e le esternalità che creavano, ma il loro scopo esplicito non era soddisfare i bisogni della collettività, quanto piuttosto apportare benefici ai propri soci attraverso lo scambio mutualistico. Pertanto ogni effetto positivo sul benessere della comunità era un effetto collaterale non intenzionale. In altre parole, se a quel tempo una cooperativa intercettava e serviva l’interesse generale, non lo faceva nel perseguimento di un obiettivo esplicito. Nella seconda metà del secolo hanno iniziato a nascere cooperative che si proponevano invece di agire nell’interesse generale, cioè quelle che vengono definite cooperative di pubblica utilità (public benefit cooperatives)7. In esse lo scopo di creare benefici per la società diviene un obiettivo esplicito e con esse sorgono nuovi modelli di organizzazione cooperativa che vanno ad aggiungersi a quelli tradizionali.

Un esempio particolarmente significativo è quello delle cooperative sociali italiane. Negli anni ‘70 del secolo scorso, diverse cooperative italiane furono fondate con il dichiarato intento di rispondere a bisogni sociali – come l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate – che al tempo non ricevevano risposta da parte dello Stato (Borzaga, Ianes, 2006). Nel 1991 una legge (n. 381/91) ha riconosciuto questa evoluzione nella natura dell’impresa cooperativa ed ha introdotto una nuova forma giuridica, denominata appunto cooperativa sociale, che esplicitamente si pone come obiettivo quello di promuovere scopi di natura sociale8: “Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale […]” attraverso la fornitura di servizi socio-sanitari ed educativi, da un lato, e di inserimento lavorativo di persone svantaggiate, dall’altro9. Oltre vent’anni di storia e una crescita impetuosa10 fanno delle cooperative sociali italiane uno degli esempi più importanti al mondo di cooperative di pubblica utilità.

Il beneficio sociale prodotto dalle cooperative sociali deriva, in un modo o nell’altro, dalle “esternalità” e dalla promozione della “giustizia sociale”. Si noti che anche altre cooperative, e più in generale qualsiasi tipo di impresa, possono avere un’utilità sociale che si realizza attraverso questi stessi canali ma, se i benefici esterni non sono perseguiti in modo intenzionale, esse non si configurano come imprese di pubblica utilità. La legge italiana invece impone alle cooperative sociali che queste esternalità siano parte integrante degli obiettivi dell’impresa e, di conseguenza, vengano perseguite in maniera consapevole.

Quello delle cooperative sociali italiane non è l’unico modello di cooperativa di pubblica utilità. Una filosofia completamente diversa è, ad esempio, incorporata nelle Community Benefit Societies (Bencom) del Regno Unito. A differenza di altri paesi, nel Regno Unito non vi sono forme giuridiche specifiche per le cooperative e lo status di “cooperativa” si fonda sulle caratteristiche dello statuto societario e sulla prassi. Cooperatives UK classifica le Bencom come una delle forme organizzative della cooperazione (Cooperatives UK, 2009 - p. 32). Come le cooperative tradizionali anche le Bencom sono sotto il controllo democratico dei propri soci, ma in questo caso l’obiettivo è il beneficio esclusivo della comunità. Se nelle cooperative sociali italiane il beneficio dei soci è limitato dall’interesse della comunità, ma comunque esiste, qui scompare completamente. Abbiamo quindi due modi affatto diversi di perseguire l’interesse generale: congiuntamente a quello dei soci (come nelle cooperative sociali) oppure in modo esclusivo (come nelle Bencom). Di conseguenza, esistono due modelli organizzativi fondamentalmente diversi, espressione di due diverse concezioni dell’impresa cooperativa, per delineare le quali conviene tornare un attimo alla Dichiarazione d’Identità Cooperativa. Qui si propone una definizione universale di cooperativa, svincolata dai modelli giuridici dei diversi paesi: “Una cooperativa è un’associazione autonoma di individui che si uniscono volontariamente per soddisfare i propri bisogni” (ICA, 1995)11. Il punto è come questa definizione si rapporti con il VII Principio, in particolare se il requisito della mutualità vada inteso come necessario o possa invece essere sostituito da finalità sociali (“la cura della comunità”). La Dichiarazione lascia di fatto la domanda senza risposta ed entrambe le soluzioni sembrano possibili. In particolare, secondo una visione la titolarità da parte di soggetti diversi dagli investitori e il controllo democratico sono sufficienti per classificare un’impresa come cooperativa (Jones, Kalmi, 2012 - p. 39). Secondo un’altra concezione invece la mutualità è indispensabile (è questa la visione inglobata nella legislazione italiana - Fici, 2013). All’interno della categoria delle cooperative di pubblica utilità si possono trovare cooperative appartenenti ad entrambe le tipologie.


Cooperativa di comunità, beni di comunità e titolarità dei cittadini

Le cooperative di comunità che si stanno diffondendo in varie parti del mondo sono il punto di arrivo di un’evoluzione che ha visto il progressivo spostamento del baricentro delle cooperative da specifici gruppi sociali e professionali all’intera società. Una prima difficoltà nell’affrontare il tema delle cooperative di comunità è che il termine “comunità” è attualmente utilizzato con riferimento a una grande varietà di istituzioni e, all’interno del campo cooperativo, a molte tipologie differenti di cooperative. Per quanto riguarda il mondo cooperativo, il termine è in uso relativamente da poco tempo – anche se è difficile dire precisamente da quando – ma non tutti gli enti a cui è associato sono nuovi: alcuni sono in effetti indistinguibili negli aspetti rilevanti (tipo di attività, modello organizzativo) da istituzioni che esistevano in passato sotto denominazioni differenti, come le cooperative elettriche storiche, alcune banche cooperative e alcune cooperative di consumo locali (cfr. il primo paragrafo). La variabilità nell’uso del termine “comunità” è in effetti una potenziale causa di confusione. Per questo è importante elaborare un concetto preciso di cooperativa di comunità, coerente con l’evoluzione storica e la classificazione generale delle cooperative del precedente paragrafo.

Un primo problema è che uso si debba fare del termine a scopi scientifici, in particolare se lo si debba restringere alle cooperative esplicitamente denominate in questo modo. Un approccio puramente nominalistico è semplice da perseguire ma ha lo svantaggio che potrebbero essere arbitrariamente esclusi alcuni casi che sono identici nella sostanza a quelli inclusi. Invece, classificando come cooperative di comunità le une, è necessario fare lo stesso anche con le altre, il che impone necessariamente di andare oltre i nomi e di identificare gli elementi costitutivi del concetto. In poche parole occorre una definizione di cooperativa di comunità, e non solo per motivazioni di coerenza linguistica. Se, ad esempio, si ammettessero nella classe delle cooperative di comunità tutte quelle cooperative che hanno “comunità” nel nome, senza stabilire criteri discriminatori, si rinuncerebbe di fatto a comprendere in cosa consista questa classe, vista l’impossibilità di descriverla per elencazione. In ultima analisi, così facendo finiremmo per rinunciare a comprenderne la natura.

Cominciamo con qualche esempio. Un recente rapporto sulle cooperative di comunità elenca tra esse imprese che offrono servizi alla persona e ricreativi destinati ai residenti di una determinata area attraverso la gestione di negozi, bar, ristoranti, centri per la comunità, ecc., ovvero promuovono servizi all’infanzia, attività all’aperto, sport, recupero urbano, ecc. (Wales Co-operative Centre, 2012)12. Una diversa categoria di cooperative di comunità è quella delle community finance society del Regno Unito, la cui attività consiste nel raccogliere fondi e finanziare progetti/imprese a beneficio della comunità locale (Cooperatives UK, 2009, p. 32)13. Una terza categoria è quella delle cooperative nel campo dell’energia14. Alcune di esse hanno “comunità” nel proprio nome15, mentre altre, nonostante siano in tutto simili, non sono denominate in questo modo. Queste organizzazioni sono parte di una più ampia categoria di iniziative a livello comunitario il cui campo di attività principale è la produzione di energia da fonti rinnovabili (solare, eolico, biomasse, ecc.). In alcuni casi si occupano anche della fornitura di energia a soci e non-soci con varie modalità contrattuali (Walker, Devine-Wright, 2008; Hoffman, High-Pippert, 2010; Müller et al., 2011; Seyfang et al., 2012). Questi esempi sono sufficienti a mostrare quanto differenziata sia la classe di cui stiamo parlando e la domanda che sorge naturale a questo punto è: esiste un filo conduttore che lega organizzazioni così diverse?

Non ci sono dubbi sul fatto che, indipendentemente dalle caratteristiche particolari che possono assumere, alla base delle cooperative di comunità ci sia il legame con una comunità ben definita. Il problema è cosa si intende per comunità. In realtà dietro ogni cooperativa c’è una comunità di un tipo o di un altro – per esempio i soci lavoratori di una cooperativa di lavoro costituiscono in un certo senso una comunità – ma questo non implica che tutte le cooperative siano di comunità e, infatti, si distingue tra quelle che lo sono e quelle che non lo sono. Di fatto, quando si parla di cooperative di comunità, si ha in mente qualche tipologia specifica di comunità.

La comunità è spesso associata al territorio16. Certamente, ci sono significati di comunità che lo trascurano, come, ad esempio, le comunità di interessi (Cooperatives UK, 2009 - p. 30; Walker, 2008 - p. 4402). Nell’era di internet la nascita di comunità virtuali ha esteso enormemente il campo. Non è comunque questo il tipo di comunità che entra nelle cooperative elettriche, vecchie e nuove, e nella maggior parte degli altri tipi di cooperativa di comunità ad oggi conosciuti. Una prima restrizione utile ai fini classificatori è quindi di limitarsi alle comunità “fisiche” che abitano un dato territorio. Come suggerisce il nome, le cooperative di comunità offrono beni di interesse generale per un’intera comunità. Si può utilizzare ancora una volta come esempio quello delle cooperative elettriche storiche. Queste organizzazioni offrivano un servizio di interesse per tutti i cittadini e normalmente servivano anche i non-soci (così, ad esempio, era in Italia), contribuendo in tal modo al benessere dell’intera comunità (a questo si aggiunge il fatto che l’attivazione del servizio in molti casi è stata anche la chiave dello sviluppo economico locale). In una parola, il servizio offerto era di interesse generale per tutti i residenti nel territorio servito, non solo per uno specifico gruppo professionale o sociale. Ciò significa che questo interesse era condiviso da tutti i residenti, indipendentemente dal loro status professionale o sociale, e cessava con il trasferimento ad altro luogo. È importante notare che l’interesse non richiede l’uso effettivo: una persona può essere interessata, anche se al momento non sta utilizzando il bene, semplicemente perché potrebbe averne bisogno in futuro. I beni/servizi che hanno queste caratteristiche li definiamo “beni di comunità”. Tra un bene di comunità e la sua comunità di riferimento c’è quindi una corrispondenza necessaria, ma quale dei due definisce l’altro? È la comunità ad identificare il bene o viceversa? In alcuni casi è la natura del bene, come nel caso delle cooperative elettriche di distribuzione, per le quali l’estensione della rete di distribuzione definisce i confini naturali della comunità di riferimento. In altri casi, quando l’uso del bene non dipende da un’infrastruttura locale, può accadere il contrario. Un bene può essere di interesse generale per una popolazione che, per qualunque ragione, si definisce come una comunità: questo è sufficiente per definire quel bene come bene di comunità. In tutti i casi, ciò che non può mancare è l’interesse universale per il bene all’interno del suo territorio di riferimento.

Pier Angelo Mori Università degli Studi di Firenze